Si dicono «certi della fermezza con la quale il nostro Governo saprà reagire a questa oltraggiosa messa in scena», i familiari di Giulio Regeni. Sono, come riferisce l’avvocata Alessandra Ballerini, «feriti ed amareggiati dall’ennesimo tentativo di depistaggio da parte delle autorità egiziane». Ma non sono soli: Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia che ha raccolto migliaia di adesioni nella campagna «Verità per Giulio Regeni», è incredulo davanti all’ultima sfrontata provocazione del regime di Al Sisi.

È la prima volta che, tra le tante versioni egiziane sulla morte di Regeni fatte trapelare attraverso i media o fonti investigative, una “verità” viene comunicata ufficialmente dal ministro dell’Interno. Cosa ne pensa?

Penso, come i genitori di Giulio, che sia un’oltraggiosa messa in scena. Anche questa versione tende a scagionare la responsabilità delle forze di sicurezza o di pezzi di istituzioni cairote. Amnesty non ha prove certe che in questo omicidio siano coinvolti apparati di Stato, ma la sensazione è che si tratti dell’ennesimo tentativo di porre la leadership egiziana tra i danneggiati da questa vicenda. E devo dire che si sono anche degli elementi, nel modo in cui è stata presentata, che suonano perfino ridicoli. Qui veramente la verità è stata offerta su un piatto d’argento.

Come il piatto con i documenti di Giulio, fotografato per la pagina Fb del ministero di Ghaffar… Quali sono gli elementi che rendono questa versione ancora più ridicola delle altre?

Improvvisamente spunta dal nulla un gruppo criminale di cui non si ha alcuna traccia nel recente passato. Il ministero degli Interni egiziano sostiene che questa banda era nota, ma non se ne aveva notizia. Né in questi due mesi era mai emersa una lista di stranieri aggrediti, o addirittura scomparsi, rapiti o uccisi. Poi non si capisce il movente di queste torture ripetute…

Vi risulta sia stato chiesto un riscatto, per lui o per altri stranieri, recentemente?
No, appunto. Il corpo di Giulio parla, purtroppo, e parla di tortura. Vogliamo poi discutere anche dei documenti e degli altri oggetti personali messi con dubbio gusto in posta, intatti, su quel piatto d’argento? In qualunque rapina, per far sparire le tracce, i documenti si distruggono. Oppure vengono contraffatti e riutilizzati, ma non tenuti nel cassetto mentre sono in corso le ricerche degli assassini.

Anche la ricostruzione del blitz nel quale sarebbero morti i “rapinatori”, lasciando al loro posto solo dei parenti che possono parlare, sembra tratta dai peggiori copioni.
Ecco, se si pensa che questa vicenda si possa chiudere con cinque cadaveri che non possono parlare, e con gli ennesimi testimoni pronti a confermare, si fa un errore di valutazione. La vicenda di Giulio Regeni non inizia il 25 gennaio, ma più di un mese prima, quando partecipa alla riunione dei sindacati, viene fotografato, ha paura, viene sorvegliato dalla polizia, vengono interrogati i coinquilini, eccetera. Fino a quel punto non ci sono bande di criminali che agiscono con le divise dei poliziotti, c’è la polizia vera. Poi improvvisamente lo scenario cambia, le istituzioni spariscono e compare un gruppo di criminali comuni che colpirebbe cittadini stranieri per qualunque motivo, che sia xenofobia o per danneggiare le relazioni internazionali. È davvero estenuante dover perdere tempo a smontare tutte queste ipotesi quando sarebbe nell’interesse dell’Egitto ammettere la colpa di pezzi dello Stato.

Perché proprio ora il ministro dell’Interno egiziano, che peraltro è tra i pochi a non aver subito il recente rimpasto di governo, si sente così sicuro?

Dal marzo 2015, da quando è arrivato il ministro Ghaffar, i casi di tortura sono aumentati in modo esponenziale, come ci riferiscono gli attivisti locali per i diritti umani, quelli che ancora sopravvivono. Non so perché Al Sisi si senta più forte. Posso presumere che voglia prendere l’Italia per stanchezza, o che pensi di avere un maggiore potere contrattuale, perché, come disse nell’intervista a Repubblica, senza di lui dobbiamo temere il caos. Intervista dove per altro escludeva alcun precedente simile.

Al Sisi si sente più coperto politicamente dal governo Renzi?

Spero non sia così. È vero che l’ottimismo intempestivo del nostro premier ha aperto una linea di credito verso Al Sisi ma quella apertura dà maggiori responsabilità all’Italia nella ricerca della verità. E infatti nessuno è disposto a credere nella versione accreditata da Ghaffar, né la procura di Roma che la rifiuta dal punto di vista investigativo, né, mi pare, il ministro Gentiloni che insiste nel pretendere la verità.

Al Sisi ha ragione nel considerarsi indispensabile per la sicurezza dell’Italia e dell’Europa?
Probabilmente sì, è importante per quel che potrebbe decidere di fare. Il che però non vuol dire che debba essere un alleato a prescindere.

Si sente con il coltello dalla parte del manico, come anche il presidente turco Erdogan?
Appunto, non è una novità che le leadership di paesi amici si sentano con questo potere. Ma siamo noi che mettiamo il coltello nelle loro mani, che abbiamo improvvisamente bisogno di partner a cui affidare compiti peraltro contrari al diritto internazionale. Dipende da noi riuscire a incidere sul rispetto dei diritti umani almeno in quei Paesi con i quali abbiamo buoni rapporti. Il caso di Regeni diventa anche la cartina di tornasole per capire la qualità dei nostri rapporti bilaterali.

Lei è d’accordo con chi chiede di richiamare l’ambasciatore?

Al momento rischia di essere una misura più spettacolare che efficace, perché vuol dire pregiudicare la possibilità di ottenere una collaborazione autentica e metterebbero a rischio le migliaia di italiani che vivono nel Paese.

Quali strade si possono prevedere per ottenere la giustizia che il regime egiziano non vuole assicurare?
Ci sono due possibilità: l’utilizzo degli strumenti previsti dall’accordo di associazione tra l’Unione europea, i suoi stati membri e l’Egitto, e dalla Convenzione Onu contro la tortura che impone precisi obblighi internazionali di investigare e di processare o estradare le persone sospettate di tortura.