Per festeggiare i trent’anni di Festival Mix a Milano è stato proiettato Una donna come Eva, film-manifesto del lesbo-femminismo degli anni Settanta, inno alla libertà e all’abbattimento degli stereotipi sociali femminili. La regista Nouchka Van Brakel, prima donna iscritta a una accademia di cinema in Olanda, racconta la storia di Eva (Monique van de Ven), casalinga madre di due figli, insoddisfatta e frustrata dalla sua vita nelle quattro mura, che si innamora durante un soggiorno in Francia di una hippie (Maria Schneider) che vive in una comune. Per non rinunciare al suo amore e ai figli, Eva intraprende una causa legale col marito, che la porrà davanti a scelte difficili e coraggiose.Fra le canzoni di Meg Christian e festival di donne, Una donna come Eva è fra tutti i film della regista, quello che oggi suscita più stupore perché così legato al contesto degli anni ’70. Nouchka (affettuoso diminutivo per «piccola bambina») ha appreso dal nonno socialista l’abilità di raccontare storie, e attraverso il cinema quella di toccare le persone per ottenere una reazione e risvegliare le coscienze.

Da cosa parte la sua ispirazione, dalle storie o da un problema sociale?

La maggior parte delle volte parte dalla realtà, cercando storie forti e con un forte contesto sociale. Il mio primo film, Het debuut, è tratto da un libro e parla di una ragazza che si innamora di un amico del padre. Il tema era insidioso, poteva sembrare la storia di un uomo anziano con una donna più giovane; ho cercato di raccontarla dal punto di vista femminile, di una giovane donna che vive le sue esperienze per scoprire l’amore e la sua sessualità.

Eva potrebbe essere una donna di oggi nonostante il look «antiquato» del film.

È quello che mi hanno detto molte persone alla proiezione. L’Olanda è piuttosto avanti coi tempi e credo che la differenza con l’Italia sia abbastanza grande, per via delle radici cattoliche del vostro Paese. Negli anni ’70 abbiamo avuto un enorme movimento femminista e lesbico. Nel 2002 è arrivata la legge che consente matrimoni fra persone dello stesso sesso e la possibilità di crescere bambini: siamo stati il primo Paese al mondo a regolamentarlo. Se dovessi girare ora il film credo che darei al personaggio di Eva un carattere molto più combattivo.

«Una donna come Eva» sembra un manifesto per tutte le donne e non solo per la comunità lesbica.

Che siano di finzione o documentari, i miei film mettono al centro una donna alle prese con una scelta controversa, che determina chi è lei veramente e che cosa vuole. Eva è circondata da responsabilità e stereotipi: deve prendersi cura dei figli, della casa, della famiglia, un ruolo che per parecchio tempo le donne sono state costrette a recitare. Questo era l’aspetto principale del film. A un certo punto si innamora di un’altra donna, ma è secondario. In America il 90% del pubblico femminile veniva a ringraziarmi per aver raccontato la sua storia.

Il finale ha scatenato però delle critiche da parte della comunità lesbica che lo ha visto come una resa …

È stato frainteso. Eva non si pente, sceglie per sé; non segue un nuovo amore cosa che significherebbe dedicarsi a un’altra persona, ma rimane ferma, senza un lavoro, senza una famiglia, senza un amore ma con se stessa.

Come è stato dirigere Maria Schneider? 

Molto difficile. Quando abbiamo iniziato arrivava dalla riabilitazione dopo Ultimo Tango a Parigi, un film che la ferì molto. Voleva partecipare, era anche innamorata di una donna con due bambini, quindi si riconosceva nel personaggio. Ma dopo poco ha cominciato a chiudersi in sé stessa. Nelle scene d’amore che avrei voluto girare come tenere, delicate e romantiche con Maria non sapevo come farla collaborare.

Ha avuto dei punti di riferimento nel suo cinema? 

Non direi, soprattutto perché in Olanda sono stata la prima donna a fare cinema con protagonisti personaggi femminili. Mi ha influenzato lo spirito dei film di Milos Forman e Agnès Varda.

Qual relazione ha col cinema oggi? 

Ho smesso di fare film due anni fa. Stavo girando un documentario a cui tenevo molto, sul compito della scuola di creare spazi in cui i bambini possano lavorare con la loro creatività. Nella mia educazione è stato molto importante stare assieme, inventare storie, cantare, sviluppare la fantasia. Ma non si può fare film se non si ha dietro una televisione e per loro non era un argomento attraente…

Si sente fiera di aver contribuito e aver fatto la storia di un movimento? 

È la stessa domanda che mi ha fatto mio nipote il mese scorso mentre stavamo tornando dalla festa al Film Institute di Amsterdam per i miei cinquant’anni di carriera: gli ho risposto di sì, anche se la nostra cultura calvinista ci chiede di rimanere piuttosto modesti. E pensare che prima che i miei film uscissero non avrei mai immaginato il loro percorso.