Grazia e fermezza, esattezza ed eleganza hanno caratterizzato da sempre la scrittura di Carla Vasio, sia nella stagione più sperimentale, quando con gli autori del Gruppo 63 contribuiva al rinnovamento del linguaggio, della grammatica narrativa, sia nei decenni successivi, quando in opere pur diverse, appena più affabili, non tradiva il rigore della sua personale ricerca letteraria. Che è rimasta esigente, tesa al nitore e mai alla semplicità, con un modo proprio, sottile, di essere spiazzante, di far scartare i piani temporali, di accompagnare il nostro sguardo lungo prospettive inusuali.
Grazia e fermezza appartengono anche al suo ultimo libro, Tuono di mezzanotte (nottetempo, pp. 73, € 11,00), breve quanto distillato, essenziale, elegante ed esatto nel registrare flussi di pensiero, nel descrivere ambienti e luci, nel mettere in risonanza stati d’animo e condizioni esterne. Dentro la levità della scrittura, dentro la sua composizione – di questo si deve parlare per un’autrice che ha salde, interiorizzate, conoscenze di musica e d’arte –, s’incontra il perturbante, introdotto da un tuono imprevisto, incongruo, «ingiustificato nella purezza del cielo». È un evento gratuito e anomalo che nella sua deflagrazione innesca puntuali sovvertimenti, accensioni, epifanie. I protagonisti, ciascuno nel proprio normale mondo di monade, eppure in relazione spaziale e percettiva con gli altri, sono come rivelati a loro stessi, al lavoro che stanno compiendo, perché non si sfugge mai al dato, alla riflessione metapoetica, potremmo dire, ampliandone il senso agli atti del quotidiano. Il piccolo Faríd svolge con fatica un tema assegnato per casa temendo errori e «freghi rossi e blu»; Bea traduce una poesia dal greco con scrupolosa passione e intanto si fa domande sull’amore e su come intendere purpureos attribuito al mare; Nicola si chiede perché nei suoi quadri, dalle giuste cromie al posto giusto, niente sia «bello e innaturale come dovrebbe»; Caterina pensa ai ricordi che si allontanano mentre compila una lettera muta; la signorina Gendell cerca lo stile appropriato per un saggio sulla morte della signorina Ramsay «annunciata senza soffermarsi sulle circostanze».
Ogni storia manda bagliori sull’altra. I testi che compongono il libro sono al tempo stesso racconti staccati, leggibili in autonomia, e capitoli simultanei di un’unica trama. Lo stile, limpido e ipotattico, e la macroforma incarnano in allegoria un esemplare microcosmo. Dei suoi personaggi Carla Vasio scava l’interiorità, l’incertezza, la propensione al sovvertimento esistenziale; la loro solitudine è insieme assoluta e relativa: tra le storie corrono fini rimandi. Gli inquilini del «complesso abitativo», colpiti dal «cupo boato», si affacciano e talora si scorgono reciprocamente, quasi tutti captano un’eco di piccoli passi o una figurina in corsa. Le finestre interrompono l’opacità dell’isolamento svelando piccole vite. Quelle «vite infinitamente oscure sono ancora tutte da documentare», aveva scritto Virginia Woolf. Gesti ordinari, tesoretti di ricordi. Tuono di mezzanotte è un notturno, certo, e non privo di accenti poetici, ma un notturno poliprospettico e sincronico, plurale e urbano, dotato di un concreto centro aggregativo: l’ombra densa del cortile, i rami degli alberi, i gatti «neri nel buio», i «tenui passi e il respiro affannato» di un bambino che fugge dal suo futuro in orfanatrofio. Il tuono annuncia la misteriosa catastrofe – spia lessicale ricorrente – il rivolgimento, in senso etimologico, di quelle vite, o il loro scioglimento, se fossimo nella drammaturgia greca.
C’è un’originaria classicità, nella scrittura di Carla Vasio, nitida, stillante, emotiva. È quella della lirica eolica, aperta al sensibile, alla forza e alle sfumature degli animi, perfettamente compiuta nelle ritualità cui allude, e musicalissima. Molte pagine convocano la Luna – che lei scrive con iniziale maiuscola – o la Notte. Qui il tempo della storia, eccetto l’epilogo che trasformerà il condominio, si focalizza sul tramonto della luna a metà della notte, tracciando un arco dal frammento attribuito a Saffo che Bea deve tradurre, «“Deduke men a selanna…”», fino alla constatazione di uno degli ultimi episodi: «la Luna è tranquilla, e si prende tutto il tempo che le serve per tramontare». Del frammento non dà versione italiana, né pronuncia il seguito – «e io dormo sola» – ma lo fa riascoltare tutto nell’assenza. Al perturbante, peraltro, si legano «Assenza» e «Ritorno». Il moto narrativo è ascensionale – dal seminterrato agli ultimi piani –, l’architettura coesa, alcuni toni da fiaba, i respiri di queste piccole vite fiume rapidi e fugaci. Sembrerebbe aleggiarvi, delicatissimo, impalpabile, lo spirito di un amico. Quello che a Carla chiedeva: «Hai riconosciuto il tuo ritratto nell’Hilarotragoedia? Sei la foglia che con grazia discende ridendo nell’abisso».