Gli artisti del circolo della Giovane Vienna che, a partire dal 1891, si incontravano al Caffè Griensteidl con sensibilità «moderna» e atteggiamenti da gentiluomini europei, non andavano a ingrossare le fila dei poeti maledetti, né dei bohémiens che animavano, tragici e pittoreschi, la vita culturale delle capitali europee. «Smagati» e «desiderosi di qualsiasi novità», come nota il loro mentore Hermann Bahr potevano tutt’al più vantare qualche modesta deviazione rispetto alle vite borghesi che i genitori immaginavano per loro: incertezze sulla carriera futura, pochissima voglia di impegnarsi in un lavoro redditizio, uno spiccato interesse per gli incontri amorosi, la passione per il gioco, ma senza vizi dannunziani, né attrazione per gli abissi. Così, malgrado esasperino la crisi dello «stupido ottocento», gli esponenti di quella che Kraus chiama con disprezzo «la letteratura demolita» non rompono per oltraggio o ribellione le tavole che i genitori, ebrei liberali e borghesi hanno consegnato loro con ogni premura.

Malgrado corteggino la decadenza, coltivano un profondo senso etico che li porta a combattere lo sfruttamento e la menzogna di una società oppressiva e illiberale: Schnitzler è, fin nelle sue prime prove letterarie, un apologeta della verità e del disinteresse, Hofmannsthal non risparmia disprezzo né per il vampirismo dei suoi esteti, né per il superomismo o l’astenia dei decadenti francesi e Beer-Hofmann, il più religioso, può scrivere «Che persone moderate e morigerate siamo noi, di fronte a quel gran signore lassù che scrive i nostri destini o, meglio, li detta».

Sono in fondo dei bravi ragazzi, legatissimi alle famiglie che, in genere, abbandonano solo per sposarsi con fanciulle dabbene, disposte alla conversione e a uno stile di vita tradizionale, del tutto insensibili al fascino delle droghe, poco a quello dell’alcool, troppo autoironici per travestirsi da artisti trasgressivi all’ombra del Ring.

Il tradizionalismo viennese, le origini ebraiche, l’abitudine a teatralizzare l’esistenza contribuiscono a far vivere solo sulla pagina scritta situazioni degradanti, incontri pericolosi, legami carichi di inquietudine. Nella vita di tutti i giorni succede invece veramente poco di romanzesco: cambiano i nomi delle donne di Schnitzler, i libri letti e chiosati da Hofmannsthal, gli abiti di Beer-Hofmann, «di eccessiva eleganza» e con tanto di orchidea all’occhiello, le notizie ‘francesi’ di Hermann Bahr e le pose di Dörmann.

Anche i loro sogni mancano di trasgressività – quelli sognati, come anche quelli che, veri, simbolici o immaginari, affollano la pagina scritta. Invece di attraversare l’Acheronte, abissale e demoniaco, come promette Freud in esergo alla Traumdeutung, le avventure oniriche dei letterati della Giovane Vienna sono strumenti di evocazione e conversione. Un ponte tra l’individuo e lo spirito del mondo, tra verità e menzogna, nichilismo e senso della propria storia. Lo coglie Lukács, attirato dalla meditabonda forza delle pagine di La morte di Georg, scritte da un compagno di strada di Schnitzler – il più vicino e il più fedele – Beer Hofmann: «È morto un tale scrive –. Tutto gli gira attorno, tutto è possibile e nulla è certo; tutto si confonde, sogno e vita, desideri e realtà. … Cosa gli resta? Cosa c’è di certo in questa vita? Dove è il luogo – per quanto deserto e arido, privo di tutte le ricchezze e le bellezze – dove possa gettare radici sicure? Dove è il punto di frattura tra sogno e realtà, Io e natura, contenuto profondo e natura fugace?».

Certo Schnitzler, il medico della scuola viennese, esperto in ipnosi, isteria e sperimentazioni, coglie – e prima di Freud – che la trama dei sogni è fatta di desideri repressi, ma li colloca in una zona limbica, illuminata e accessibile, il «medioconscio»; non ne accetta il linguaggio simbolico, le venature traumatiche e li dona senza troppe mediazioni alla coscienza dei suoi personaggi in un dialogo di verità che, solo raramente, sconfina in un incerto monismo. Polimorfo e umanissimo, il sogno (esattamente come l’ipnosi – o l’autoipnosi – e l’allucinazione, non rappresenta per lui l’«altro» del pensiero e dell’azione, ma è semmai l’attento cronista di tutti i passaggi di frontiera tra conosciuto e indefinibile.

Nella sua acribia, Schnitzler registra, insieme agli avvenimenti minuti della sua vita, anche i sogni e li affida ai diari per poi rileggerli cercando il senso di un periodo, o anche trame e suggestioni per opere future. Sogni di (quasi) un’intera vita di un uomo ossessivo, controllante e moderatamente disorientato che in età matura Schnitzler decide di estrapolare e di dettare con qualche censura che ha fatto pensare alla volontà di una pubblicazione. Qualsiasi fosse la sua determinazione, questi sogni appuntati e trascritti sono stati proposti nel 2012, per i centocinquant’anni dalla nascita dello scrittore, in un volume, Träume. Das Traumtagebuch 1875-1931 (a cura di Peter Michael Braunwart e Leo A. Lensing) e ora proposti in Italia dal Saggiatore Sogni 1875-1931 (nella bella traduzione di Fernanda Rosso Chioso e per la cura di Agnese Grieco, pp. 430, euro 35,00).

Una operazione non scontata: nella trattatistica cortese, e in prima fila nel Cortegiano, si raccomanda a dame e cavalieri di non inquinare la conversazione con il rozzo materiale dei sogni. Troppo personali, noiosi, astrusi o inappropriati, rimangono avvinghiati a chi li fa respingendo l’attenzione anche del più benevolo degli interlocutori. In realtà quelli di Schnitzler hanno il vantaggio della brevità, la grazia di essere stati sognati a poche strade dalla dimora di Freud e la suggestione di una nuova conoscenza con un autore amato e conosciuto, ma solo a fatica si fanno strumento critico e, ancor più, letteratura.

Schnitzler inizia a raccoglierli nel 1921: la guerra, che lui non aveva mai corteggiato – neppure quando in tanti sognavano nuove stagioni dello spirito nel fuoco della battaglia –, finisce travolgendo, insieme all’Impero, anche la mite rivoluzione che lo aveva reso famoso: le sue storie moderatamente scapestrate, il femminismo generoso, il gusto irridente di chi coglie tutte le magagne del suo mondo, il piacere di mettere in mostra le pulsioni dell’animo umano. Al bisturi attento del medico il dopoguerra ha sostituito la mannaia dell’espressionismo disperato e maturo, l’urlo assordante e, anche, il dubbio piacere di nascondersi e stordirsi in un caos dalle venature metafisiche.

Schnitzler è ormai considerato un uomo di ieri, relitto di una fin de siècle che a Vienna sembra non voler finire. E lui, il vecchio combattente con la faccia leonina e la stazza di chi non vuole abbandonare il campo, scrive le sue opere più belle: Il ritorno di Casanova, Doppio sogno, Signorina Else, Gioco all’alba, prose meditabonde lontane dai palcoscenici e ripensa alla sua vita. Aveva iniziato negli anni del conflitto, mentre guardava con dolore la sua «bella» Austria inabissarsi, a scrivere una autobiografia che non pubblicherà (Giovinezza a Vienna appare solo postuma), rubrica poi la sua visione del mondo in aforismi inattuali, ostinati e generosi – certo non la sua opera migliore, ma quella in cui si attesta una volontà di benevolenza e di condivisione che rinuncia alle arguzie felici del castigatore di falsi costumi e si apre ad una forma per lui nuova di dialogo. È una versione dell’allomatico di Hofmannsthal che si sottrae con pudore scientifico alle consolazioni della mistica e alle rassicurazioni dell’eternità e trionfa semmai nella fragile tregua affettiva con cui si chiude Traumnovelle.

La trascrizione maniacale dei sogni appartiene a questa stagione. Un percorso intimo e laterale che andrebbe interrogato senza confronti con Freud, ma semmai con un’attenzione affettuosa al tentativo di un uomo di cinquanta anni di ritrovare dopo la catastrofe, come il protagonista della Morte di Georg, un nuovo senso alla sua esistenza, alla sua scrittura e anche al suo moralismo.