La Que Sabe appena pubblicato dall’etichetta gallese Weard Beard è un mosaico, un centone di prospettive, di angolazioni da cui vedere, ascoltare il rock psichedelico, secondo un’inclinazione che Gioele Valenti ha mostrato sin dal tempo di Ostro dei Lay Llamas, vinile violaceo sulla cui superficie si rifletteva il mito, qualcosa di arcaico, come un vento che veniva da lontano, un «Ostro» appunto. Lo stesso prisma nominale, il ventaglio di identità per cui ora Valenti è Herself ora Juju, e prima era parte dei Lay Llamas poi dei Josefin Ohrn; e la collaborazione con innumerevoli musicisti del panorama indie internazionale, mostrano chiaramente l’ispirazione proteiforme e irrequieta, in costante divenire del polistrumentista siciliano divenuto ormai punto di riferimento per la discografia indipendente inglese, da dove negli ultimi anni sono arrivate le cose migliori, tra shoegaze, new wave, psichedelia, spesso racchiusi tutti in una sola esperienza, come quella degli Oscillation o degli Early Years.

O COME nel caso di Juju e di quest’ultimo splendido La Que Sabe, vinile lattiginoso, il cui esordio, Not This Time, è un sapido fluire di chitarre disposte in moto costante, andante, in modo che, con una certa coscienza dell’orografia psichedelica contemporanea, lambisca e attualizzi zone sonore vicine ai Moon Duo o ai Wooden Ships. Ma affioramenti di tastiera e filigrane elettroniche già avevano presagito la svolta dei due brani successivi, immersi in un’atmosfera venata di new wave, soprattutto Could You Believe che sembra inoltrarsi in una notte scarnita da un giro essenziale, insistente di basso, in una penombra che i synth tendono a macchiare di neon. Lo stesso basso, nudo, saturo di buiore, che apre 7 Days in The Sun dettando insieme alla batteria, per lo più tom, il tempo di una sorta di preghiera pagana, mentre in aria fremono lastre di nubi fesse dai lenti spettrali bagliori della tastiera. Per arrivare poi, auspici i Goat – che partecipano al disco insieme ai Mercury Rev – al panismo, al rito apotropaico, si direbbe, di Beautiful Mother, fatto di percussioni terragne e drappi di chitarre chiare che invocano chissà quale dio iperboreo. Ma il capolavoro di un disco che è già tra i più belli dell’anno è senza dubbio Walk The Line, tutto perso, dimentico nello shoegaze del ritornello e in un rif struggente di synth, poi di chitarra, che sembra fare eco ai due versi finali di Nothing Endures: «Why you’re falling in love/ if nothing endures?».