Fra gli anni Cinquanta e Settanta i rotocalchi italiani arrivarono a vendere fino a 20 milioni di copie. Significa che quasi la metà del Paese comprava una rivista illustrata. Il segreto di quel periodo d’oro sta proprio in quel «illustrata». Fu l’attenzione alla fotografia a far arrivare anche in Italia una tendenza già in corso all’estero con «Life», «Stern», «Paris Match». Al reportage e al particolare rapporto di lavoro fra giornalista e fotografo sono dedicati i quattro racconti della serie «Vita con fotoreporter». Partendo dalle proprie esperienze con vari fotografi, da Uliano Lucas a Luigi Baldelli, da Francesco Cocco a Emanuela Balbini, da Stefano Schirato a Marcello Bonfanti, da Alex Masi a Franco Guardascione, Mariangela Mianiti racconta l’unicità del legame che si crea fra reporter e fotoreporter. È una relazione di lavoro che, date le condizioni spesso difficili in cui svolge e gli imprevisti che si incontrano, può dare due esiti: o ci si detesta, o ci si stima e si diventa amici. La seconda opzione è, per fortuna, più frequente e ha creato coppie come Mario Dondero e Paolo Pernici, Luigi Baldelli e Ettore Mo. Le puntate escono ogni martedì: la prossima, e ultima, il 20 agosto.

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Imprevisti, pasti saltati, partenze improvvise, alberghi sui generis sono spesso i compagni di viaggio di reporter e fotoreporter. E poi ci sono le notti in bianco che, a volte, fanno proprio parte del servizio. Maggio 2007. Il titolare di un’agenzia di viaggi di Lecco, folgorato anni prima sulla via di Medjugorje dove nel 1981 sei ragazzi avevano detto di aver visto la Madonna, ha un’idea. Organizzare un pellegrinaggio non dei soliti quattro o cinque giorni, ma di 24 e poi dedicare tutto il giorno a messa, preghiere, salita sul monte, confessione, meditazioni, con rientro a Malpensa verso l’una di notte.

IL FOTOGRAFO che viene con me è Luigi Baldelli, uno che ha già fotografato le guerre del Golfo, Jugoslavia, Afghanistan, la rivoluzione in Romania, i conflitti e le carestie in Africa. Figurarsi se lo spaventano 24 ore senza dormire. Anche dal punto di vista psicologico un servizio come questo sembrerebbe una passeggiata in confronto agli orrori che ha visto. Ma un fotoreporter con esperienza sa che la quotidianità ha le sue insidie, non certo fisiche, ma di interpretazione. A Medjugorje si tratta di ritrarre famiglie con bambini al seguito, madri che vogliono capire le ragioni per cui il figlio di tre anni si è ammalato di tumore al cervello o è morto di leucemia, gente in sedia a rotelle. In situazioni simili, se non sei credente devi mettere lo scetticismo da parte e registrare da un lato il grande potere della speranza, dall’altro la grande presa che la fede ha su quelle speranze.

Non bisogna cercare né il logico né il razionale, perché lì non esistono, ma raccontare un fenomeno. Per Luigi Baldelli si trattò di documentare tutto ciò evitando il patetico, il caso umano, la storia lacrimevole, oppiacei utili solo a far esclamare al lettore «Oppoverino», e non era ciò che noi volevamo. La foto di apertura di quel servizio ritrae due pellegrini inginocchiati e scalzi fra i massi aguzzi della salita sul monte Podbrdo. Dietro c’è una valle verde, morbida, fertile. È un’immagine apparentemente semplice, in realtà sottile e simbolica perché mette insieme la via crucis del dolore e l’eden agognato.

UN’ALTRA notte in bianco l’ho trascorsa con Francesco Cocco su e giù per il villaggio artigianale di Mestre. Quel comune era stato il primo in Italia a sperimentare lo zoning, un’area protetta dove circoscrivere la prostituzione di strada per toglierla da zone più abitate e frequentate. Nel tentativo di regolamentare il fenomeno e offrire alle prostitute assistenza sanitaria, legale e aiuto a chi voleva uscire dal giro, un pullmino di volontari del Free woman project girava da mesi di notte cercando di avvicinarle. Per loro non era stato facile conquistarne la fiducia. Arrivare lì con una giornalista e un fotografo significava rischiare di far saltare tutto quel lavoro e per questo avevano preannunciato la nostra presenza, ma nulla ci garantiva che saremmo tornati a casa con il servizio.

ALLE 22,00, quando partiamo, comincia a diluviare. Oltrepassiamo con il pullmino il ponte sopra la ferrovia. Di là inizia uno stradone che è l’emblema di quanto può essere escludente un territorio di nessuno. Una sfilata di fabbrichette e cancelli sbarrati costeggiano la strada, sullo stradone ci sono un’auto della polizia e un furgone che vende bibite e panini. I lampioni illuminano la desolazione. In giro non c’è nessuno. Con questo tempo le prostitute e le trans erano rimaste quasi tutte a casa, delle 35 che ci sono di solito se ne vedono al massimo tre. Francesco Cocco comincia a scattare con un apparecchio che sta nel palmo della mano. È una delle prime compatte (siamo nel 2007), non performanti come quelle di oggi. «Se tirassi fuori la Rolex – dice Cocco – scapperebbero appena mi vedono».

FACCIAMO su e giù e qualche sosta per un paio di ore, finché riusciamo a parlare con una trans. È qualcosa, ma troppo poco. Poi i volontari se ne vanno e io e Francesco continuiamo il giro da soli. Verso l’una smette di piovere e compare davanti a una saracinesca un gruppo di nigeriane in microgonna e stivaloni bianchi. Le avviciniamo. Si nascondono. Dopo due o tre tentativi riusciamo a scambiare qualche parola. Alle 4 del mattino ricomincia a diluviare. Francesco Cocco è nervosissimo. «È un disastro. Ho solo cinque foto buone». La mattina dopo avvisa il photo editor che il servizio non c’è. Quando Marco Finazzi vede gli scatti gli dice: «Sei uno stronzo. Mi hai fatto prendere un colpo per niente. Il servizio è bellissimo». Quelle cinque immagini con luci estreme, scattate dall’auto in movimento e sotto la pioggia, raccontano la parte oscura non delle prostitute, ma dei luoghi dove i clienti vanno per comprare la penetrazione nel corpo di una donna, atti a pagamento consumati in fretta, nello squallore di un quartiere deserto, fra fabbriche chiuse e marciapiedi, per scaricarsi la voglia.

Alle notti in bianco possono fare da contraltare gli appostamenti assolati. Successe sulla piazza di Letojanni, fra Messina e Taormina, un pomeriggio di giugno. Seguivo il caso Ruby, che avevo già intervistato, ma restavano molti non detti. Volevo capire l’inizio del tutto, da che cosa era scappata quella ragazzina quando viveva con la famiglia. I genitori, di origine marocchina, vivevano ancora in Sicilia, con i bambini più piccoli. Aspettando l’uscita dalla scuola individuai il padre, gli parlai, disse che non voleva sapere più nulla di quella figlia. Lo convinsi a continuare la conversazione, ma non voleva ricevermi a casa , disse. Mi diede appuntamento per il pomeriggio dopo sulla piazza del paese. Avvisai la redazione che mandò Calogero Russo che già si trovava in Sicilia, ma a Palermo, ovvero dalla parte opposta dell’isola e chi conosce le strade siciliane sa che percorrere quasi 300 chilometri lì non è come andare da Milano a Firenze sull’autostrada del sole. Calogero stava per imbarcarsi e tornare a Milano. Quando ricevette la chiamata girò l’auto e la mattina dopo era a Letojanni.

Ci mangiammo una granita e cominciammo ad aspettare sotto il sole cocente. «Marià, io mi metto un poco di lato che se quello mi vede magari gli gira storto e se ne va. Prima gli parli tu e poi mi avvicino», mi disse. Aspettammo per ore, invano, io seduta su una panchina, Calogero mezzo acquattato dietro a un cespuglio. Quando capimmo che il padre di Ruby non sarebbe mai venuto, dissi a Calogero: «So dove abita. Andiamo noi da lui». «Marià, io adesso devo partire perché domattina devo stare a Milano e guido tutta la notte». Lo vidi andare via di corsa e dispiaciuto più per l’appuntamento saltato che per la sua inutile sfacchinata e il biglietto della nave buttato al vento. Il mestiere del fotoreporter è anche questo, correre a perdifiato e lavorare per un servizio che non uscirà mai, e che quindi non sarà pagato.

CON GIULIO DI STURCO le difficoltà che incontrammo furono altre. Dovevamo documentare il backstage di Miss Italia 2009, a Salsomaggiore. Arrivando scoprimmo che parlare con le ragazze era quasi come chiedere udienza al Papa. La Rai le impegnava con prove continue, erano libere solo nella pausa pranzo che dedicavano a mamme e fidanzati, ci era permesso stare nella sala trucco e parrucco solo durante le prove, mentre quando si era in diretta il backstage era vietato persino a Gianni Berengo Gardin a cui l’organizzazione aveva commissionato un lavoro proprio sul concorso. Ci vollero tre giorni, alcune eliminazioni a sorpresa, qualche acconciatura sbagliata e un po’ di malcontento per catturare le parole e lo scatto svelanti. Una delle ultime escluse disse: «Che cosa devo fare per entrare nel mondo dello spettacolo? Sono disposta a tutto, anche a dare via il culo se serve». Lo scatto fu preso su una scala mentre le ragazze aspettavano di entrare in scena. Sono in attesa, un po’ tese, attente, ma non posano e quindi sono finalmente vere. Vere nella loro bellezza e nell’ansia che talvolta le abita.
3.continua