On y va, garçons, si parte, ragazzi. Il treno scivola dalla stazione dell’aeroporto di Bruxelles verso Mons, capoluogo del Borinage, la regione delle miniere di carbone, della strage di Marcinelle: 262 minatori morti, di cui 136 italiani, anno 1956. Il treno scivola tra le campagne di una primavera inoltrata, che il cielo grigio sembra voler rifiutare. Le case solitarie e le case dei piccoli paesi si somigliano tutte, il tetto spiovente di ardesia, la pietra e il mattone rosso scuro dei muri, le lunghe finestre, i balconi in ferro battuto. Un paesaggio ripetitivo, cui, dopo un po’, non fai più caso. Ma non oggi, vigilia calcistica della prima sfida mondiale tra Les diables rouges, i diavoli rossi del Belgio, e Le volpi del deserto algerine. Dalle finestre e dai balconi cercano il vento le bandiere con i colori nazionali: rosso, giallo e nero. Le sfidano, impari per quantità, gli stendardi algerini, con la mezza luna stellata sospesa sul verde e sul bianco. Qui, però, è Borinage, terra di fatica e di migranti.

L’Italia è sempre l’Italia

E allora, eccolo l’italico tricolore ad occupare tutta la lunghezza di un basso condominio, a penzolare verticale da una finestra, a frusciare su un’asta piantata in un giardino. A volte, e non sono poche, le due bandiere stanno una accanto all’altra, messe lì dallo stesso tifoso, figlio di un padre minatore e di una madre ammalata di fatica; nato e vissuto qui magari senza mai aver visto l’Italia, e però non importa, è sempre l’Italia.

A Mons, per adesso, è ancora un’altra festa. Si celebra da quasi sette secoli ai primi di giugno, dura una settimana, stravolge la città come un carnevale brasiliano, si chiama Doudou; culmina nel combattimento della domenica, il Lumeçon, tra San Giorgio e il drago, aiutati da altre figure tra cui gli immancabili diavoli. Il Lumeçon non schiera il Bene contro il Male, ma l’Ordine contro il Disordine. Sottigliezza dal secolare e sottile significato politico, nascosta dietro il Carro d’Oro che porta in corteo le reliquie di Sainte Waudru, cui si attribuisce il miracolo di aver scacciato la peste.

Il Doudou è ancora padrone della magnifica Grand Place e delle vie che su di essa convergono. Ma sta per cedere il posto al Mundial. Lo capisci dalla gente con il patrio vessillo per mantello, in testa una parrucca giallorossonera come il cappello. E giallorossoneri sono le magliette, i tatuaggi provvisori sulle facce, le trombette cui qualcuno, seppur timidamente, prova già a dare fiato. Non è ancora il momento di sostituire il sacro al profano, però ci siamo quasi.

ei capannelli di gente i discorsi citano Lukaku, De Bruyne, Mertens, Fellaini, Courtois, giocatori della Nazionale. L’accento con cui in Belgio si parla francese è molto particolare, così come l’uso di nonante, novanta, al posto di quatre-vingt dix; di durant, durante, invece di pendant. Accento nell’accento, inconfondibile, quello di chi il francese ha dovuto impararlo arrivando nel Borinage per trovare lavoro: largo, aperto, senza erre. È il francese degli italiani. Per chi faranno il tifo? Domanda inutile guardando a domani con l’Algeria, forse foriera di dilemmi se gli Azzurri andranno avanti e incontreranno i Diavoli. Provi a chiedere, dopo esserti accertato che il vecchio, il signore, il giovane uomo abbiano italica nascita o discendenza. E così facendo, apri le porte di piccole storie. Quasi tutte si somigliano. Parlano di miniere e di una vita resa difficile anche dall’ostilità, nei casi migliori della diffidenza, verso gli emigranti straccioni.

Lo racconta Luciano, classe 1965, figlio di abruzzesi. Oggi è padrone di un ristorante, «La trattoria», affacciato sulla Grand Place, dove, fin da ragazzino, ha fatto il cameriere. Quando i titolari sono andati in pensione, gli hanno proposto di rilevare il locale, e lui ha detto sì. Tiferà Italia, senza compromessi: «È la mia terra». Ma tu non ci sei nato «Che importanza ha?», ribadisce parlando italiano con fatica. E se i Mondiali li vincerà il Belgio? «Sarò contento. Però vincerà l’Italia». Dimitris, 53 anni, ha origini sarde. I suoi, dopo tanto tempo, erano tornati sull’isola e lui li aveva seguiti. Matrimonio, due figli, la separazione. E allora rotta contraria, Mons definitivamente. Sorseggia una birra prima di rispondere «Tiferò Italia e Belgio, nell’ordine. Anche se è in Belgio che mi sento a casa». Cosa fai nella vita? Le frasi vaghe fanno pensare che nel caffè dove lo hai incontrato ci passi molte ore del giorno.

Camminano accanto. Una mano del bambino stringe una mano del papà, l’altra due palloncini. Il papà indossa una t shirt nera con la scritta «Italia forever». Si scusa, parla soltanto francese. A casa dei suoi la lingua era il siciliano di Siracusa, mischiato al francese imparato per necessità. Ha un bel sorriso mentre afferma convinto «Spero che l’Italia vinca i Mondiali, abbiamo giocato bene la prima partita». Abbiamo? Il bambino sorride malizioso.

Cinquanta e cinquanta

Se ne vanno a passi lenti, i passi della festa. Chissà perché, provi per loro tenerezza. Le altre storie che ascolti dalle Marche, da un po’ di Piemonte e Lombardia; da Toscana e Meridione. L’Italia è sempre al primo posto nei cuori calcistici. Fa eccezione il razionale Gigi: «Tiferò Italia perché la mia famiglia viene da lì, e Belgio perché ci lavoro e ci vivo». Cinquanta e cinquanta? «Cinquanta e cinquanta. È anche più comodo». E ti congeda con una pacca sulle spalle.

Che il Doudou si stia ritirando in buon ordine lo capisci la sera. Un muro di maglie rosse sbarra l’ingresso di rue des Fripiers, dietro la Grand Place. Ondeggia, il muro, ai ritmi di un dj su una pedana. La corrente di birra è forte, fortissimo il grido corale, maschile e femminile, «We are the champions!».

Martedì 17, ore 15 e 30. Il maxi schermo è in place Nervienne. Troppo lontana, meglio rue d’Havré, centro. Le bancarelle della festa si sono riciclate in bancarelle dei Mondiali. Vendono tutto ciò che fa di un tifoso il tifoso perfetto. Il suono delle trombette si accavalla alle urla di incitamento e al suono ritmato dei clacson, le facce sono dipinte con i colori dei Diavoli, gli stessi delle corna che, senza alcuna allusione se non al tifo, spuntano sulle teste; nei bar i camerieri indossano parrucche e magliette in tema, l’ultimo piano di una casa è nascosto da una gigantesca bandiera belga.

Il calcio qui si condivide

L’inquilino si affaccia compiaciuto. E gli algerini? Ci sono, ci sono. Qui il calcio si condivide, essere tifosi non vuol dire essere contro. Eccoli, i ragazzi e le ragazze d’Algeria, con le bandiere mantello, i cappellini, la voce ad emettere quel lungo suono che riporta alla Battaglia di Algeri, il film di Gillo Pontecorvo. Pub Cayau, prima tappa, primo tempo. Davanti alla tv, lo schermo sporto sulla strada, siede un folto gruppo di supporter. Una postazione alcolica distribuisce birra.

Il Belgio annaspa, dentro il pub (altra tv accesa) si impreca, fuori c’è maggior compostezza. Minuto numero 24. Vertonghen mette giù Feghouli, rigore. Proprio mentre lo stesso Feghouli prende la rincorsa, passa un gruppo di algerini, si ferma. Gol!, urlano, poi se ne vanno cantando. Intervallo, pub L’envers.

Aria mesta, discussioni della serie siamo tutti allenatori, birra per consolarsi, a grande richiesta Mertens in campo. Secondo tempo, bar Le central, Grand Place, un po’fighetto, zeppo. Gli occhi dei clienti sono fissi sui due schermi in alto. Minuto 67, micidiale colpo di testa di Fellaini. Pari e bolgia infernale. Minuto 86, contropiede del Belgio, Mertens, 2 a 1.
Tu, in segreto, tifavi Algeria, e dunque non ti scomponi. La bolgia, invece, raggiunge dimensioni indescrivibili. Il padrone del bar sale in piedi sul banco, tutti tacciono. Serissimo, fa un cenno. Parte una base musicale su cui, bicchieri di birra alzati, tutti intonano «We are the champions». Il resto della notte incrina i fasti del Doudou, cancella l’immagine dei belgi grigi e sonnacchiosi. Parafrasando Obelix, figlio a fumetti del Plat Pays cantato da Jacques Brel, «Il sont fous ces Belges», sono pazzi questi Belgi. Ed è proprio così, almeno nei giorni del Mondiale.