La notte senza canestri che entra nella storia. E il duro risveglio del giorno dopo. Lo sciopero della Nba dopo le pallottole piantate nella schiena di Jacob Blake, lo sport americano che si accoda, dal basket femminile (Wnba), il baseball, il soccer e lo Us Open di tennis che pareva dovesse andare avanti fino al boicottaggio di Naomi Osaka, numero uno mondiale, figlia di un afroamericano e di una giapponese.

I SOCIAL, GLI APPELLI, lo sciopero di massa come detonatore di attenzioni e per chiedere gesti concreti contro le ripetute violenze sui neri. Mai la giostra si era fermata in passato, con l’eccezione del rifiuto di Bill Russell – una delle icone dello sport americano anche sul tema del razzismo – e dei Boston Celtics nel 1961 a prendere parte a un incontro di esibizione, per protestare contro gli abusi sui neri. Endorsement, complimenti, il successo di atleti che hanno deciso di diventare simboli mediatici per un inizio di cambiamento.

E invece. La decisione di ieri dopo l’incontro tra atleti e proprietari, di portare a compimento la stagione ha un po’ arrestato l’onda della pacifica ribellione al sistema. Si gioca, insomma, si porta avanti il torneo. Il disastro economico per un torneo che muove otto miliardi di dollari l’anno e che ha già subito parecchi danni per il lockdown imposto dal Covid-19 ha portato la maggioranza di atleti e società a giocare i playoff. Certo, resta il gesto, forte, delle luci spente per una notte nel momento clou della stagione, ovvero i playoff per il titolo. E stavolta perde un colpo Lebron James, che con i Los Angeles Lakers si era speso per fermarsi a tempo indeterminato chiedendo a presidenti-paperoni di investire per sostenere il diritto di voto degli americani, per sostegni alle politiche sociali.

LA SCELTA DI PORTARE avanti i playoff, nella consapevolezza che la Nba è decisamente un passo avanti a tutti nella lotta alle ingiustizie sociali, sembra un’occasione perduta. Forse si doveva andare in fondo, gli atleti afroamericani (il 75% nella Nba) non ne potevano più, serviva un gesto simbolico.
Forse è stata un’iniziativa poco pianificata e senza un’idea chiara: mentre gli atleti discutevano è partito lo stop alla pallacanestro dei Milwaukee Bucks, la franchigia del Wisconsin, niente parquet per la quinta gara della serie playoff con gli Orlando Magic. E a seguire, James e i Lakers non hanno giocato contro i Portland Trail Blazers. Nel frattempo, è montata le protesta delle superstar (Boycott, no postponed di Lebron James, intenzionato a fermare il torneo), le testimonianze di allenatori, giocatori, la sfilata degli arbitri per il campus di Disneyworld, il quartier generale della Nba nei mesi della bolla.

Ora la tensione è alta anche se la Nba va avanti con il suo calendario. Nella mente c’è Jacob Blake ridotto su una sedia a rotelle per il tiro a segno di un poliziotto del Wisconsin, certo. Ma la miccia della ribellione degli atleti era accesa dall’assassinio di George Floyd avvenuto mesi fa a Minneapolis, rimasto senza respiro per il ginocchio piantato nel collo da un agente bianco. Un pugno nello stomaco, manifestazioni in tutto il Paese, ecco Black Lives Matter, tra strade pacifiste, episodi di violenza, il no al razzismo, all’ingiustizia sociale, alle violenze ai danni, soprattutto della comunità afroamericana anche su magliette, cappellini, scarpe di star dello sport e dello spettacolo.

CON L’ADESIONE alla protesta che ha coinvolto anche l’Europa (con tante stelle meno esposte, da Messi a Ronaldo) tra cui Lewis Hamilton, stella della F.1, afro cresciuto nei sobborghi di Londra, vittima di intolleranza (anche violenze) da bambino per il colore della pelle, che ha accusato il microcosmo dei motori di poca attenzione al tema razziale. E oltre allo sciopero e alla marcia indietro immediata resta negli americani (e non solo) una coincidenza di date agostane: il 26 di quattro anni fa il via alle rivolte pacifiche degli atleti afroamericani: Colin Kaepernick, lanciatore dei San Francisco 49ers (Nfl) inginocchiato per protesta durante l’inno americano suonato prima di una partita. E rovistando nella scatola nera, il 28 agosto del 1963 Martin Luther King chiedeva il riconoscimento dei diritti civili per la comunità nera davanti a 250 mila persone, I have a dream. Mezzo secolo di lotte, di voci, di violenze. E di illusioni, come ieri. Una piaga che si è allargata durante il mandato di Donald Trump alla Casa Bianca con le sue politiche intolleranti verso le minoranze e la vicinanza ai suprematisti bianchi.