Per la prima volta in concorso a Cannes, con il suo quarto film, il regista cinese Diao Yinan (vincitore a Berlino nel 2014, con Black Coal, Thin Ice – che ha riscosso un notevole successo di botteghino in patria) continua a scavare nella vena del thriller. Ambientato in una remota, e non ben definita, provincia della Cina, The Wild Goose Lake (il titolo originale è ancora più enigmaticamente generico: Rendez vous in una stazione del sud) emana l’angoscia esistenziale di certi noir del Dopoguerra e li evoca anche nella sua struttura portante, costruito com’è essenzialmente su una caccia all’uomo.

TUTTO INIZIA – di notte, ovvio – in una stazione sotto la pioggia, da cui si risale alla scaramuccia tra gang di giovani ladri di moto che innesca la trama. Diao dà alle scene di violenza con cui apre The Wild Goose Lake una qualità cool, anti- esplosiva che fa pensare più a Tsai Ming Liang che a Johnnie To. Sopravvissuto a un agguato in cui uno dei suoi perde letteralmente la testa (il film sottolinea spesso la frivolezza quasi casuale da cui scaturisce la catena di eventi), il capobanda Zhou Zenong (l’attore televisivo Hu Ge), che sembra lievemente più vecchio e saggio degli altri, accecato dalla luce dei fari e dal sangue che gli scorre sul volto, spara e uccide per caso un poliziotto.

BRACCATO dall’intero dipartimento di polizia -così tanti da sembrare un esercito e che hanno isolato la regione- Zenong inizia così la sua fuga disperata in un labirinto infinito di superfici e di texture (rami, intonaci decrepiti, tende, foglie d’erba, un muro di pioggia), stagliate di luci primarie (verdi, rossi gialli spesso in controluce che delineano le superfici) che ha l’intricatezza di un videogioco dove un pericolo attende dietro a ogni angolo. Diao complica il racconto con una serie di flash back, ma poi contrasta lo slancio verso il passato accompagnando il movimento del suo protagonista con brevi, ripetuti, carrelli orizzontali che sottolineano il fatalismo all’anima di questo suo film elegante ed elaboratissimo.

NESSUNO può fidarsi di nessuno. La guida di Zenon, nell’ impassibile, fatiscente, giungla notturna di vicoli, stanze, scale, cortili, in cui si intravedono squarci di bestie feroci, vecchie foto in bianco e nero, una coreografia in piazza a base di suole di scarpa luminose e gli specchi deformanti sembrano una citazione diretta di La signora di Shangai – è Liu Aiai (Gwen Lun Mei, già nel film precedente del regista) una escort che lavora sulla riva dello stagno locale e che si materializza inspiegabilmente alla stazione al posto della moglie, che lui aveva mandato a prendere da un amico. Diao ha attribuito alla fotografia in bianco e nero di una ragazza sdraiata in barca, il volto circondato incorniciato dai riflessi dell’acqua l’ispirazione di questo film, al quale avrebbe iniziato a pensare cinque anni fa ma che, ha rivelato in un’intervista a Screen, allora non era sufficientemente maturo per fare.
E Aiai, più di Zenong, sembra il centro della sua attenzione- una cifra che vediamo improvvisare una danza, giocare in barca, sorridere sotto un grande cappello bianco, femme fatale esile come un cigno che, a seconda, aiuta o vende Zenong a quelli che sono sulle sue tracce ansiosi di incassare la taglia.
L’inganno è così esplicito che i due a un certo punto ne parlano direttamente. Il loro è quasi un balletto coreografato da M.C. Escher.