Eugène Viollet-le-Duc fotografato in tre pose diverse da Félix Nadar, 1878

 

Gli edifici come la cattedrale di Parigi sono parte di quanto viene definito patrimonio culturale tangibile; ma hanno anche una portata culturale ben più ampia. L’edificio di fatto costituisce un’entità materiale, di cui avremmo voluto conservare tutti i singoli elementi che hanno fatto sì che fosse riconosciuto e percepito come tale, cioè un edificio denso di stratificazioni e un bene universale. Al tempo stesso, la cattedrale di Notre Dame è anche uno straordinario esempio di come il patrimonio architettonico diventi elemento di ispirazione e produzione di un altro patrimonio di natura intangibile (si pensi a certe magnifiche immagini fotografiche di Charles Nègre, Édouard Baldus, o al romanzo di Victor Hugo Nôtre-Dame de Paris), altri beni di cui a sua volta diviene un potente trasmettitore.
Ma Notre Dame, con le discussioni che le conseguenze dell’incendio hanno suscitato intorno ai temi dell’autenticità del monumento (e più specificamente della guglia crollata), è anche un’occasione per mettere a nudo valori e significati culturali che attribuiamo al patrimonio.
Proprio la cultura ottocentesca, messa in discussione per i restauri effettuati tra 1842 e 1864, durante i quali fu costruita la guglia crollata, ha ‘inventato’ l’idea di un patrimonio culturale, da preservare accuratamente come bagaglio che ogni generazione trasmette a quella successiva. Ha posto, dunque, la questione di costruire e tutelare una memoria condivisa del passato.
I danni della Rivoluzione
La cultura che ha consentito la conservazione di Notre Dame dopo i danni seguiti alla Rivoluzione ha identificato la conservazione della memoria come un compito etico e culturale, ma anche le competenze tecniche, giuridiche, amministrative che necessita. L’architetto Eugène-Emmanuel Viollet-le-Duc, a cui si deve principalmente la guglia crollata, è stato tra i primi a cimentarsi con gli aspetti tecnici e culturali della conservazione, nonché a riflettere intorno ai significati e alle finalità culturali di questa pratica in un’opera teorica che abbraccia la cultura architettonica nel suo insieme. Il postulato di farne una teoria è piuttosto distante in realtà dagli scritti di Viollet-le-Duc, che appare soprattutto interessato a individuare il senso del conservare rispetto alla capacità del passato di generare i germogli di nuovi sviluppi. Ha affrontato la produzione dell’architettura (ma anche delle arti applicate e dell’edilizia comune) nella Storia con pagine che costituiscono una raccolta fondamentale di indagini e studi, scritti e grafici, di edifici, particolari costruttivi, oggetti artistici e d’uso comune. Non va dimenticato che i suoi Entretiens sur l’architecture (1863-’72), e i Dictionnaires (Dictionnaire raisonné de l’architecture française du XI au XVI siècle, 1854-’68; Dictionnaire raisonné du mobilier français de l’époque carlovingienne à la renaissance, 1858-’75) hanno gettato le basi teoriche della generazione Art Nouveau e oltre. Le Corbusier, l’architetto più emblematico del movimento moderno, racconta che amava andare a Notre Dame a leggere il volume di Viollet-le-Duc, acquistato fin dal suo primo soggiorno a Parigi.
Restano enormi contraddizioni in questi lavori, che hanno salvato e, al tempo stesso, profondamente modificato questi monumenti. Ma stupisce come a distanza di tanti anni, ancora l’opera di questo architetto riesca a suscitare contrapposizioni così vivaci, quasi fosse un interlocutore contemporaneo con cui si è in disaccordo in un dibattito televisivo. Sembra un po’ il destino dell’Ottocento (e Viollet-le-Duc sembra estremizzare tale reazione) di aver storicizzato il passato, rendendolo oggetto di indagine, ma essere rimasto vittima della mancanza di storicizzazione, nella difficoltà di percepire la discontinuità con un approccio che pone di fronte al dilemma dell’autenticità. E se fosse un problema mal posto?
Quando Jean Baptiste Lassus e Viollet-le-Duc avevano intrapreso pochi anni prima il restauro di Notre Dame avevano espresso e articolato molto chiaramente gli intenti che si prefiggevano. La relazione unita al progetto con cui i due architetti si sono aggiudicati il lavoro nel concorso che era stato indetto nel 1840 è unica, a quell’epoca, per conoscenze e attenzione all’architettura medievale e alle caratteristiche specifiche dell’edificio. Il progetto presentato alla scadenza del 1843 fu valutato da una commissione che si espresse in suo favore, dando inizio al completamento degli studi analitici prodotti dagli architetti nel 1845. Lo studio presentava non solo un’accurata analisi dell’edificio, ma anche l’indicazione più generale delle modalità con cui affrontare i lavori in una situazione così complessa e delicata. Gli aspetti che più colpiscono riguardano l’approccio metodologico, che si propone di rinunciare alle «preferenze personali» per un’attenta conservazione delle componenti aggiuntive al progetto del XII secolo, pur se diverse per concezione e periodo di costruzione. Oltre che un’indagine dell’edificio veniva inoltre prodotta un’indagine storica sui documenti.
La necessità di indagini accurate è infatti la premessa del progetto di restauro di Lassus e Viollet-le-Duc, i quali non danno corso alla richiesta di ‘completare’ la facciata con due guglie sulla sommità delle due torri. La motivazione è nella mancanza di ogni riferimento materiale a quelle torri che, pur previste dal progetto della chiesa, non erano mai state realizzate. D’altra parte i due architetti concordano nell’idea di ridefinire diverse parti architettoniche e, in particolare, di restituire alla chiesa la decorazione scultorea, e a questo scopo ingaggiano un’équipe di una quindicina di scultori sotto la direzione dell’artista Geoffroy-Dechaume. L’edificio del XII secolo si riscontrava profondamente modificato, in particolare con trasformazioni significative intervenute nel XIII secolo delle aperture e della distribuzione. La chiesa mostrava poi i segni delle distruzioni della Rivoluzione, nonché quelli dei lavori eseguiti intorno al 1819 sotto la direzione dell’architetto Godde. Le figure che ornavano i portali (precedenti le manomissioni settecentesche) furono riplasmate, e le nicchie riempite. Oltre alle ricerche sui materiali grafici, venne in aiuto la scoperta di alcuni frammenti esposti al Museo di Cluny, cui gli scultori poterono ispirarsi per le circa settanta statue create. Anche il coro fu ampiamente modificato con una soluzione di compromesso tra il ritorno alla struttura del XII secolo (con la riapertura dei rosoni murati scoperti in fase di cantiere) e la distribuzione della chiesa del XIII secolo.
Occorre considerare le condizioni culturali in cui fu concepito questo lavoro. Lassus (che era già intervenuto a Parigi per i lavori alla Sainte-Chapelle) era tra i pochi architetti a quel tempo apertamente schierato in difesa dell’architettura medievale, mentre Viollet-le-Duc era poco più che agli esordi. Quest’ultimo aveva guadagnato i suoi primi incarichi solo come interventi di restauro e in provincia (Vézelay, Carcassonne). Del resto gli incarichi di prestigio nella capitale erano attribuiti dallo stato agli architetti che avevano ottenuto il Grand Prix de Rome soggiornando in Italia per completare l’apprendimento del linguaggio classico dell’architettura iniziato con gli studi all’École des Beaux Arts. Viollet-le-Duc era un autodidatta per scelta, perché da subito si era interessato all’architettura medievale. Aveva anch’egli fatto il suo viaggio di studio in Italia, riconoscendo che Roma «apprend à voir». Però questa sguardo lo aveva condotto attraverso un itinerario del tutto insolito per un giovane apprendista architetto, affascinato da Siena e dalla chiesa di San Marco a Venezia. Si era messo dunque sulle tracce medievali dell’architettura francese, abbracciando le idee di quanti cominciavano a considerarla come la migliore espressione artistica prodotta da quella nazione e dunque il patrimonio più importante da salvaguardare.
I lavori di Notre Dame diventano il banco di prova per questi sostenitori dell’arte medievale. La rivista «Annales Archéologiques», che dal 1844 accompagna la riscoperta del medioevo in Francia, non si fa sfuggire l’occasione e offre ai suoi lettori una serie di articoli dei due architetti. La guerra ai vandali, lanciata negli anni trenta da Victor Hugo, non riguardava, infatti, solo le distruzioni rivoluzionarie ma soprattutto i lavori che vi erano seguiti. Proprio il direttore della rivista, l’archeologo Didron, li aveva contestati aspramente.
Alle istituzioni ufficiali che ancora proscrivevano l’architettura medievale oppone i due architetti che ne stavano affermando la rilevanza con un’opera di scrupoloso intervento conservativo nel cuore della capitale. Il restauro diventa occasione di riflessione e propaganda.
Gli articoli di Lassus e Violle-le-Duc vengono pubblicati in più numeri nel corso del 1845, incrociandosi. Lassus affronta per primo il problema di un’omissione storica. Quanto ai meriti artistici, lavorando alla cattedrale di Notre Dame poteva affermare che questo tipo di edifici rivelano di obbedire a una loro «legge» che non avrebbe mai ingannato, lasciando percepire «l’idea di cosa sono davvero». Sono autentici perché sono sinceri: «le nostre cattedrali appaiono grandi perché sono grandi (…) le nostre cappelle sono piccole quando sono davvero piccole» (De l’Art et l’Archéologie).
Di rimando Viollet-le-Duc interviene con un’analisi del sistema costruttivo medievale riscontrabile negli edifici religiosi, inteso a dimostrare il valore e infine la superiorità di un’arte che appare «raisonné», equilibrio di «esperienza», «buon senso» e «scienza» (De la construction des édifices religieux en France).
I due architetti, uniti dal lavoro a Notre Dame, si citano a vicenda soprattutto nel definire cosa si debba intendere per «restauro», tema su cui ritornano i punti espressi nella comune relazione di restauro. L’architetto incaricato di un restauro deve dimenticare e far dimenticare. Dimenticare «i suoi gusti, le sue preferenze, i suoi istinti»; far scomparire la propria personalità per «appropriarsi della forma, della materia e dei mezzi anticamente utilizzati» per «conservare, consolidare e aggiungere il meno possibile e solo se è urgente»; poi far dimenticare il restauro, cancellare le tracce del suo intervento. La precisione, l’esattezza della «verità storica» si ottiene se egli capisce a fondo questo suo compito (Lassus). La rivendicazione di quest’architettura come valore identitario è affidata, infine, alla penna di Viollet-le-Duc (De l’art etrangèr et de l’art national).
Dopo la morte di Lassus, Viollet-le-Duc mostra alcuni ripensamenti sui lavori in corso. Il progetto della nuova sacrestia viene completamente rivisto con la nuova superficie a disposizione sul lato sud della cattedrale. Per il restauro della cattedrale inizialmente segue le scelte concordate; salvo poi prendere una decisione del tutto diversa: costruire la guglia all’incrocio del transetto con la nave. La guglia, distrutta nel 1792, di cui restava l’innesto e un’incisione che ne forniva alcune indicazioni, era presente nel progetto approvato, ma era poi stata accantonata in corso di lavori. Nel disegno la guglia resta in secondo piano, presente ma non troppo. Con Viollet-le-Duc diventa un elemento di 96 m di altezza, opera di carpenteria di Bellu, e compaiono alcune creazioni del tutto nuove, in particolare le statue degli apostoli tra le quali l’architetto fa rappresentare se stesso.
Il tema della sincerità di un’architettura era stato posto da Lassus e Viollet-le-Duc come una questione di natura costruttiva. Poneva quasi un giudizio morale prima che artistico o culturale. Ha senso oggi proporre un tipo analogo di valutazione nei confronti dell’opera dell’architetto che ci avrebbe ingannato con la sua guglia? E sapremmo definire cosa è propriamente autentico nella cattedrale?
Chartes en pierre
Scorrendo le «Annales Archéologiques» si evince come i monumenti siano immaginati come archivi capaci di restituire informazioni preziose del passato, «des chartes authentiques en pierre» (J. J. Bourassé, Conservation des monuments, 1845), e insieme come gli architetti attraverso i problemi del restauro siano andati scoprendo la capacità degli edifici di rivelare una storia, al di là delle forme e delle corrispondenze stilistiche. Se la Storia è scritta prima di tutto nella costruzione stessa, nella sua consistenza fisica, nei materiali, nelle tecniche, nelle forme utilizzate, l’incendio ha proprio cancellato un pezzo cospicuo di questa storia.
Al di là dell’interesse per la stratigrafia del monumento storico, occorre allora domandarsi in che modo immaginare il futuro di Notre Dame. Ricostruire quanto è andato perduto ci costringe nuovamente di fronte alla questione posta dal restauro di Viollet-le-Duc: si può ricostruire l’infranto?
La nostra pretesa ‘oggettività’ nel guardare al passato, nel valutarlo e nell’individuare le migliori soluzioni per la sua conservazione è oggetto di continue revisioni che tengono conto degli aggiornamenti culturali con cui consideriamo e definiamo cos’è il patrimonio culturale. Dalle definizioni del singolo oggetto si è passati a individuare più ampi e complessi contesti, come quelli recentemente indentificati con l’etichetta di paesaggio urbano storico (historical urban landscape) e di paesaggio culturale (cultural landscape), che si allontanano sempre più dalla definizione di un edificio come oggetto artistico compiuto e che tengono maggiormente conto dei cambiamenti e di altri fattori che stratificano e danno senso culturale ai luoghi.
L’Unesco e la Senna
Notre Dame è stata inserita nella lista del patrimonio mondiale dall’Unesco come parte di un insieme unico e straordinario che è il paesaggio storico lungo le rive della Senna: «From the Louvre to the Eiffel Tower, from the Place de la Concorde to the Grand and Petit Palais, the evolution of Paris and its history can be seen from the River Seine. The Cathedral of Notre-Dame and the Sainte Chapelle are architectural masterpieces while Haussmann’s wide squares and boulevards influenced late 19th- and 20th-century town planning the world over».
Il cultural heritage è un’elaborazione culturale e come tale strettamente connessa al presente, alla sua percezione del passato. Occorre dunque interrogarsi sul senso del luogo e sugli attaccamenti che ha generato; gli stessi che riscontriamo ogni volta che un evento distruttivo provoca la richiesta degli abitanti di ricostruire il loro luogo ‘com’era, dov’era’. Occorre interrogarsi sulla resilienza che questo senso di appartenenza culturale ha dimostrato di saper generare.
Walter Benjamin, descrivendo questo rapporto di appropriazione che la cultura contemporanea stabilisce con il passato, osservava: «Il vero metodo per renderci presenti le cose è rappresentarcele nel nostro spazio (e non di rappresentare noi nel loro). (Così fa il collezionista e così anche l’aneddoto). Le cose così rappresentate, non tollerano in nessun modo la mediazione di “ampi contesti”. È questo in verità, vale a dire quando riesce, il caso anche della vista di grandi cose del passato – cattedrale di Chartres, tempio di Paestum: accogliere loro nel nostro spazio. Non siamo noi a trasferirci in loro, ma loro ad entrare nella nostra vita» (Parigi capitale del XIX secolo, Einaudi, 1986). Per noi la cattedrale di Notre Dame è quella che è andata a fuoco con tutte le sue sfaccettature, le sue dinamiche, i suoi adattamenti, i diversi strati del tempo e il racconto che li accompagna.