Nell’ultimo periodo sono state pubblicate diverse ricerche internazionali in tema di lavoro, occupazione, produttività, che presentano notevoli spunti di interesse; ne ricordiamo qui alcune.

La prima riguarda una serie di elaborazioni di un centro britannico, il Niers (National institute of economic and social research), il secondo uno studio dell’Ufficio Internazionale del Lavoro di Ginevra (ILO) che si intitola World employment and social outlook 2015. Facciamo menzione anche brevemente ad un recente lavoro dell’Ocse, OECD compendium of productivity indicators 2015.

Il Niers affronta, peraltro limitatamente al caso britannico, il cosiddetto mistero della produttività (productivity puzzle) che da diversi anni angustia i politici e gli economisti. Il secondo ci fornisce delle statistiche che appaiono per molti versi terrificanti sull’andamento dell’occupazione nel mondo.

Per la prima questione partiamo dallo studio dell’Ocse. Esso ci ricorda che dopo il 2008 ( ma per la verità in molti paesi anche parecchio prima) nella gran parte dei paesi sviluppati la crescita della produttività del lavoro si è indebolita in maniera molto significativa.
La questione non appare trascurabile, dal momento che gli economisti ci ricordano che dalla sua crescita dipende in larga misura l’andamento più o meno positivo di un’economia.

Le analisi mostrano poi che il declino del fenomeno in Occidente ha una doppia facciata: esso è infatti da collegare sia ad un rallentamento dei nuovi investimenti, che al basso livello di efficienza prodotto da tali investimenti.

Sono state avanzate a proposito di tale andamento negativo diverse spiegazioni, ma nessuna sufficientemente convincente.
Ma ecco che ora il Niers avanza una nuova ipotesi, almeno con riferimento alle vicende della Gran Bretagna, ipotesi che sembra aprire una pista interessante da esplorare ulteriormente anche per altri paesi.

Nella sostanza la causa più credibile del cattivo andamento della produttività per l’istituto citato è costituita dal costo estremamente basso del lavoro. Lo studio ricorda che nel cuore della crisi la politica monetaria britannica è intervenuta, tra l’altro, facendo crescere fortemente l’inflazione al fine di ridurre i salari reali. Così le remunerazioni più basse sono state riportate al livello in cui si trovavano quaranta anni fa. Con un tale costo del lavoro non è più necessario per le imprese, afferma il Niers, fare degli sforzi per investire o per ottimizzare l’organizzazione del lavoro al fine di fare dei profitti; questi vengono quasi da sé.

Si può aggiungere che a conclusioni simili, relative ad una rilevante erosione dei livelli salariali, si può arrivare per tutti i principali paesi occidentali, anche se tale risultato è stato ottenuto altrove per vie differenti da quelle dell’inflazione.

E veniamo allo studio dell’Ilo, che fa riferimento ad un’analisi globale delle tendenze del lavoro. Esso stima intanto che nel 2014 il numero dei disoccupati a livello mondiale ha raggiunto i 201 milioni di unità, 30 milioni in più di prima dello scoppio della crisi nel 2008. Inoltre, oggi l’impiego salariato, ci ricorda sempre l’Ilo, tocca ormai soltanto il 50% del lavoro, mentre il restante 50% è affidato sostanzialmente all’autoimpiego. Dei lavoratori salariati, poi, meno del 40% è occupato in lavori permanenti e a tempo pieno, con una tendenza ad un’ulteriore diminuzione del fenomeno. Quindi alla fine solo il 20% degli occupati ha un impiego stabile e in qualche modo protetto. Le donne sono rappresentate in maniera molto più che proporzionale degli uomini nei lavori temporanei e a tempo parziale.

Queste trasformazioni nel lavoro stanno ovviamente avendo importanti ripercussioni economiche e sociali. Una conseguenza per lo studio è quella della carenza di domanda aggregata, che persiste dai giorni della crisi e che tende a deprimere l’economia. Inoltre, il mutamento nella relazioni di lavoro sta facendo crescere le diseguaglianze di reddito, la povertà e l’esclusione sociale.
Tra le raccomandazioni dell’istituto a fronte di tali mutamenti c’è quella rivolta ai governi, cui viene chiesto di non promuovere, come peraltro appare giusto, soltanto la transizione dalle forme di lavoro precarie all’impiego a tempo pieno, ma anche di assicurare una adeguata protezione ai lavoratori in tutte le forme di occupazione, anche in quelle precarie.
Il rapporto sottolinea poi, dulcis in fundo ( o in cauda venenum?), che le cifre mostrano come riducendo il livello di protezione dei lavoratori non si riduce anche quello della disoccupazione. Si ottengono invece risultati controproducenti sia per il livello dell’occupazione che per il tasso di partecipazione al mercato del lavoro. Ogni riferimento al job act di Renzi appare ovviamente del tutto casuale.