Oltre 65 milioni di profughi in tutto il mondo: l’anno 2017 ha segnato un nuovo record. Mai si era raggiunto un numero simile di rifugiati, nemmeno durante le due guerre mondiali che devastarono l’Europa il secolo scorso. Nei numeri è facile perdersi, il rifugiato perde volto, storia, voce. Diviene un punto insignificante in una massa indistinta, privo di personalità, disperazione, speranze e sogni.

A DADAAB – un nome che pare una cantilena, il campo profughi più grande del pianeta – la massa indistinta è realtà quotidiana per chi accoglie stancamente (l’Onu e le organizzazioni internazionali), per chi finanzia a singhiozzo (i governi occidentali), per chi ci vive (profughi somali, eritrei, sudanesi, kenyani poveri) e per chi tenta di distruggerlo (Nairobi). Difficile dire quante persone ci siano dentro, tra le tende, le baracche di alluminio e quelle di paglia: mezzo milione secondo le stime, costantemente aumentate dai primi anni Novanta quando nacque nel nord del Kenya, al confine con la Somalia.

CRESCIUTO in modo disordinato, rifugio da chi fugge da guerre e occupazioni militari e dagli attentati di al-Shaabab, si è trasformato in una città con le sue regole, il suo mercato, i suoi servizi, i campi da calcio, le diatribe e i conflitti sociali, economici, tribali. Un non-luogo che stenta a farsi luogo e che Ben Rawlence racconta nel suo libro La città delle spine (l’autore è ospite oggi al Salone del Libro di Torino, presso lo Spazio Internazionale, ore 12), dopo anni di ricerche in una metropoli che non appare in nessuna mappa.

Il testo di Rawlence (edito da Brioschi, pp. 442, euro 18) che a Dadaab ha trascorso otto anni, è un reportage che si fa romanzo, o un romanzo che sfocia nel reportage. Attraverso le vite di nove rifugiati, ognuno arrivato in un periodo diverso e per una ragione diversa, l’autore spiega Dadaab. Vite che si intrecciano, si sfiorano o non si incontrano mai e che narrano la lunga vita del campo, dalla sua nascita a oggi. Ogni storia è specchio della condizione di mezzo milione di persone in cui la totale dipendenza e il mancato controllo sulla propria vita si traducono nel buufis, parola coniata a Dadaab a indicare lo stuggente desiderio di andarsene, e nella convinzione radicata di essere le cavie di un enorme esperimento di ingegneria sociale.

Rawlence narra con delicatezza e senza alcuna esagerazione (non ce ne sarebbe bisogno) le tante sfide per la sopravvivenza – sia fisica che psicologica – tra razioni prestabilite dalle Nazioni Unite (a ogni rifugiato spettano 2241 calorie al giorno, 565 grammi di cibo), lavoretti per guadagnare qualche centinaio di scellini in più, matrimoni in crisi, carestie letali, le regole e le punizioni imposte da una società conservatrice e religiosa. Ognuno di loro reagisce a modo suo: chi come Tawane gettandosi a capofitto nel lavoro per l’Onu, chi come Muna provando a dimenticare masticando khat, chi come Nisho spaccandosi la schiena come facchino.

ALLA FINE QUELLO CHE RESTA è Dadaab, madre e secondino, prigione prima mentale che fisica. E restano le vite di mezzo milione di profughi a cui La città delle spine dà un volto e una storia rendendoli per qualche ora, almeno nella mente del lettore, meno invisibili e dunque meno prigionieri.