Mateo non era il nome che gli avevano dati i genitori, quando viveva con tutti gli altri del suo villaggio nella foresta del Chaco in Paraguay, ma quello che gli venne imposto dai missionari, «i bianchi» come li chiama ancora oggi. Furono loro a costringerli a lasciare le terre dove vivevano da secoli, la foresta, la loro vita per andare altrove, divenire stanziali, separarsi, perdere la lingua, e soprattutto veder svanire la propria comunità. Quella di Mateo Sobode Chiquero è una storia comune a tanti altri Ayoreo, i nativi del Chaco appunto, devastati dalla conversione forzata al cristianesimo, negli anni Settanta e Ottanta a opera di missionari americani della New Tribe Mission che nei loro confronti misero in atto una caccia all’uomo: perseguitati, obbligati con la violenza a partire, a migliaia vennero uccisi anche da quelle malattie portate dai «bianchi» – che come ricorda un altro, ormai anziano, uccisero i suoi genitori.

QUELLE terre servivano alle multinazionali – il Chaco paraguiano è una delle zone con un tasso di deforestizzazione più alto al mondo – alle grandi compagnie brasiliane come la Yaguarete Porà – che oggi minaccia i Totobiegosode, un gruppo più isolato degli Ayoreo per le stesse ragioni: la terra da spianare, abbrutire, trasformare in un deserto di polvere per coltivare mais, soia, nutrire gli allevamenti di carne transgenici. Mentre continuiamo a pensare che si problema non ci riguardi forse con l’idea che il pianeta sia suddiviso in zone tra loro separate.

Nothing but the SunApenas el sol – il film che apre oggi Idfa, uno dei più grandi appuntamenti con la produzione documentaria, racconta tutto questo: ma non lo fa nella «distanza del reportage, piuttosto prova a ricostruire una narrazione attraverso le voci di chi l’ha vissuta, nelle esperienze di chi vi appartiene e continua a confrontarsi con una condizione di estraneità a se stesso.

È PROPRIO Mateo a «guidare» il regista, Arami Ullón, in questo on the road tra i luoghi mutati dalle economie globali; il sole che gli avi di Mateo veneravano nella sua sacralità è oggi un nemico che infuoca quel nuovo deserto di polvere e carcasse di animali morti.
Mateo cerca di mettere insieme i frammenti di vita del suo popolo, vorrebbe che non venissero dimenticati, che i loro vissuti rimangano da qualche parte. Così con l’aiuto di vecchie cassette va in giro a raccogliere e a registrare i racconti, le canzoni, i ricordi degli Ayoreo dagli anni Settanta. Alcuni di quei nastri si sono rovinati nel tempo, e però questo archivio è la sola memoria possibile di un popolo, che senza scrittura né possibilità di entrare nelle «storie ufficiali» trova qui la sua «prima persona». E, questa memoria non è lineare, non appartiene semplicemente al passato, ma vive nel presente illuminando anche le domande, le contraddizioni, ciò che si è perduto, ciò che è cambiato per sempre.
Capita che parlando di ciò che era, di ciò che aveva più di qualcuno dica anche: «Oggi sono qui, ci vivono i miei nipoti e per qualche strana ragione questo posto mi piace».

IL REGISTA, Ullon, lo definisce «un film su una perdita irreparabile», che ha voluto realizzare perché finalmente si discuta in modo esplicito di una questione che il potere – politico, economico – ha sempre oscurato. Ciò che appare chiaro ascoltando gli incontri con le molte persone messe insieme con ostinazione da Mateo è la violenza dello sradicamento, che spesso ha reso nemici i membri di una stessa famiglia, e come poi questa origine, le proprie radici siano divenute nella percezione collettiva qualcosa di cui quasi vergognarsi.
Affermarle, difenderle in quel nuovo contesto – lo dice molto bene un’anziana signora – diveniva perciò un gesto di resistenza, era il patrimonio prezioso da condividere coi propri figli e con le generazioni a venire. E in questi passaggi, in questa incertezza che bene illuminano la brutalità di ogni colonialismo, prende vita la consapevolezza collettiva, quella di un popolo, e di un presente che è il nostro.