Il tema scelto dall’Opera di Lione per il proprio festival annuale, «per l’umanità» si pone drammaticamente in risonanza con i momenti che stiamo vivendo in Europa; l’umanità intesa come altro, diverso da noi, campeggia nei tre titoli operistici e nella creazione mondiale, che in diversi modi prendono spunto dalla persecuzione degli ebrei in Europa. Accade con La Juive di Fromental Halévy, titolo centrale nella storia del grand-opéra francese, regia firmata da Olivier Py: una scena fissa nera che dalla cima di una scalinata racconta in un veloce scorrere di pannelli la casa dell’ebreo Eléazar, le strade di Costanza all’epoca del concilio (come vuole il libretto di Scribe), trasposte nell’Europa di fine ottocento; in filigrana cupi paesaggi alla Friedrich preconizzano la morte dei due protagonisti e le foreste polacche dove sono stati sterminati milioni di persone e distrutto un patrimonio culturale antichissimo.

A parte alcuni bislacchi costumi di Pierre André Weitz, la narrazione è complessivamente efficace, specie la scena della pasqua ebraica e il drammatico finale. I tagli sulla partitura (fra cui i balletti e la difficilissima cabaletta del tenore) erano appena meno pesanti del consueto, e Daniele Rustioni guida orchestra e coro dell’opera lionese con partecipazione, cura dei dettagli e senza perdere di vista le ragioni del canto.

Il cast, molto affiatato, mostra una curiosa fungibilità nei ruoli tenorili (Eléazar, Nikolai Schukoff – Leopold, Enea Scala) e sopranili ( Rachel Harnish, la protagonista – Sabina Puértolas, principessa Euxodie) tutti simili per peso e colore vocale. L’autorità scenico-vocale di Roberto Scandiuzzi ( Cardinal Brogni) colpisce al primo ingresso, nonostante le tracce che il tempo ha lasciato sulla sua voce e su quella di Vincent Le Texier (il prevosto Ruggiero).

Accanto a Brundibar di Krasa e Der Kaiser von Atlantis di Ullmann, le due operine nate nel ghetto di Terezin, il titolo contemporaneo è stato affidato a Michel Tabachnik. Per Benjamin, derniere nuit, diretto con grande sicurezza da Bernhard Kontarsky, il compositore ha chiesto il libretto al filosofo e drammaturgo Régis Debray, che riverbera il dramma odierno dei rifugiati nel racconto della morte suicida del filosofo Walter Benjamin, nel settembre 1940 a Port-Bou, a pochi passi dalla frontiera e dalla salvezza. Quattordici quadri in cui, con una costruzione serrata, aforistica e fortemente suggestiva, gli scarni avvenimenti si fondono nel sogno: l’arrivo in albergo, la disperazione per il probabile respingimento, la decisione del suicidio (il protagonista qui è l’attore Sava Lolov); poi una galleria onirica di ritratti in cui Benjamin ( stavolta ‘doppiato’ dal cantante Jean Noel Briend) ritrova figure per lui fondamentali, da Brecht a Hanna Arendt, da Andé Gide a Gershom Sholem a Max Horkheimer e i ‘mandarini’ del mondo accademico.

Una finestra sulle tragiche contraddizioni della cultura europea che testo, musica e spettacolo di John Fulljames raccontano magnificamente: un letto, poche suppellettili mobili, proiezioni, rapide coreografie e fondale a scansie in cui si ordinano, con acribia maniacale, oggetti e perfino persone (la cabarettista berlinese continua a cantare anche dalla sua teca).

Lo stile di Tabachnik , di impianto sostanzialmente post-weberniano, si piega con duttilità a colorire i quadri mutando stile e strumentazione, con felice varietà specie della scrittura corale: dal rumoroso cabaret dell’incontro con Brecht si passa al suono dello shofar (il corno rituale delle cerimonie ebraiche) che evoca la Gerusalemme lontana della conversazione con Sholem, fino al febbrile, parossistico, liberatorio finale corale, difficile da dimenticare, con l’apparizione dell’Angelus Novus, l’angelo della storia, citato dall’immagine del quadro di Klee e nel celebre passo di Benjamin. Successo convinto e commosso per tutte le opere, con la sala sempre affollata di pubblico giovane.