Negli esametri risolutivi dell’Odissea, quando Ulisse sta per esplodere di vendetta, Omero ricorre alla metafora della musica. «L’ingegnoso Odisseo, dopo aver osservato e toccato l’arco da ogni parte, come un esperto di cetra tende facilmente la corda intorno a un puntello nuovo, fissando alle due estremità quel budello di pecora ritorto, con la stessa facilità, e senza sforzo, tese il grande arco». Sui giovani del Medioevo ellenico seduti in religioso ascolto, tali versi dovettero ottenere lo stesso effetto di London Calling dei Clash, con il basso indemoniato di Paul Simonon già pronto a bruciare sul vinile ancora da scartare.

IL MONDO ANTICO siamo abituati a immaginarlo in bianco e nero. Eppure aveva colori, odori, suoni. La musica accompagnava matrimoni e funerali, banchetti e battaglie, il sudore dei gladiatori e il riso degli amanti. Oggi resta solo qualche raffigurazione nei dipinti tombali, nelle sculture, nei pochissimi resti archeologici. Abbiamo il rosso pompeiano, i sapori del garum li ritroviamo nella colatura di alici. La notazione musicale in uso nell’antica Grecia è invece testimoniata dall’Epitaffio di Sicilo conservato a Copenaghen, inciso su una colonnetta di pietra scoperta in Asia Minore e decifrata da Wessely nel 1891.

Nel 2013, il network European Music Archaeology Project, diretto dal comune di Tarquinia, ha ottenuto 2 milioni di euro di finanziamento dall’Unione Europea proprio con lo scopo di colmare questa lacuna, ricostruendo per la prima volta gli strumenti musicali di greci, romani, etruschi, celti a partire dalla letteratura antica e dai resti materiali. «Abbiamo creato una rete di istituzioni, studiosi, artisti di sette diversi paesi europei per sviluppare un programma di ricerche, ricostruzioni e concerti», spiega il direttore artistico Emiliano Li Castro. «Italia, Regno Unito, Spagna, Germania, Austria, Svezia, Cipro hanno risposto con entusiasmo. Gli archeologi hanno studiato gli strumenti, esperti della lavorazione del metallo li hanno ricreati, musicisti di spessore interazionale li stanno suonando».

LA MOSTRA «ARCHÆOMUSICA» è il terminale del progetto. Ha debuttato a giugno a Ystad, in Svezia, e da lì girerà il mondo, toccando Roma nell’autunno del 2017. La missione è aiutarci a capire quale sia la musica che un tempo risuonava attraverso l’Europa.

Il lituus, la maestosa tromba in bronzo degli etruschi, adottata anche dai romani, è tornata a suonare grazie alle due repliche appena ultimate da John Creed. L’artigiano scozzese li ha ricostruiti sulla scorta delle analisi condotte dal Laboratorio di diagnostica dell’università della Tuscia, che hanno svelato i misteri legati alla composizione del metallo e alle tecniche di lavorazione impiegate, basandosi sul lituus tarquiniese ritrovato a Pian di Civita e sui frammenti di un altro esemplare proveniente da Cortona.

La vita ha ripreso a soffiare anche per la salpinx della tradizione greca, per la tromba celtiberica in terracotta di Numanzia, per il lur delle popolazioni baltiche e scandinave, per il corno irlandese di Loughnashade, trovato in frammenti nel 1794 in una palude vicino al complesso dell’Età del Ferro di Emain Macha.

Il pezzo forte è però il carnyx dei celti: quello di Tintignac ricostruito da Jean Boisserie. «Il carnyx di Tintignac fu trovato nel novembre del 2004 in un fanum gallo-romano appena successivo alla conquista romana della Gallia, cui si era sovrapposto un insediamento romano», spiega Ivano Ascari, insegnante di tromba presso il Conservatorio di Trento. «Ne furono scavati sette. La riproduzione dell’esemplare più completo è stata affidata a un artigiano specializzato: Jean Boisserie, lo stesso che realizza le coppe per il Tour de France.

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John e Patrick Kenny con la replica di un carnyx di Tintignac ricostruito da Jean Boisserie, foto Guido Fua

 

ANCHE IN ITALIA è stato ricostruito un carnyx: quello di Sanzeno, realizzato da Alessandro Ervas per la Soprintendenza della Provincia di Trento». Il carnyx è uno strumento in bronzo. Da guerra, probabilmente usato anche in contesti cultuali. La campana zoomorfa è indicativa della sua funzionalità: una testa di cinghiale. Già prima che la battaglia cominciasse, il grugnito di quest’animale doveva spaventare i nemici.

«Sono rappresentati sulla Colonna Traiana», chiarisce l’archeologa Cinzia Conti, indicandoli sulla base, a tre metri di altezza. I daci di Decebalo li portavano con loro in battaglia. Persero e per questo, insieme alle loro armi, i carnyx sono raffigurati sulla base del monumento funebre del vincitore. Che i romani, oltre al pianto dei vinti, ascoltassero anche il fantasma delle loro note. «Ne parla Cesare nel De Bello Gallico e Diodoro Siculo (V, 30, 4) si meraviglia: ’le trombe hanno una forma peculiare e molto ben fatta per essere di barbari; loro ci soffiano dentro e producono un suono forte con il quale riproducono bene il tumulto della guerra’. Anche Polibio (II, 29) descrive lo stupore dei romani nel trovarsi di fronte un esercito pieno di corni e trombe, tante da far gridare la terra».

È IL TUMULTUS GALLICUS di cui ci parla Ascari. «Ribellione e rumore nello stesso etimo, che evoca animi scatenati», spiega il trombettista maneggiando con delicatezza l’imponente creatura di Boisserie. Gli strumenti erano lunghi fino a 2 metri, in più all’estremità avevano un animale violento le cui orecchie brillavano al sole, come quelle che svettano sulle mani di Ascari. Bastava orientarli e con il vento i carnyx prendevano voce. «Bisognava urlarci dentro», si infervora. «Il loro scopo non era produrre una melodia, ma il suono più terribile che si potesse immaginare. In un contesto di scontro, erano i guerrieri a suonarli».

Fossero stati musicisti, all’occorrenza non ci sarebbe stato nessuno a difenderli. Nella mischia, il suonatore di carnyx era un soldato come gli altri; anche lui doveva cavarsela da solo. Pensiamo all’haka maori degli All Blacks nel rugby: ciò che conta non è la qualità della danza. Pensiamo al cornu romano, dotato di punte che lo rendevano utilizzabile come strumento offensivo. «Tutte le volte che noi cerchiamo di produrre col carnyx un bel suono, ci stiamo mettendo nei panni – estranei – del concertista virtuoso. In un’ottica contemporanea possiamo dargli dignità, ma non dobbiamo dimenticare che probabilmente non nacque per le performance», conclude Ascari.

John Kenny + carnyx
John Kenny al carnyx, foto Francesco Marano/EMAP

LA PENSA DIVERSAMENTE John Kenny. Nel 1993 è stata la prima persona a suonare un carnyx dopo 2000 anni, e da allora ha tenuto conferenze e suonato lo strumento ovunque in sale da concerto e in televisione, scrivendo numerose partiture. «Il carnyx è uno strumento vero. Nella musica niente è bianco o nero; tutto può cambiare anche in cinquant’anni. Guardiamo all’antico con occhi contemporanei, dimenticando che in fondo pure il pianoforte di Beethoven e Mozart non è il nostro», dice Kenny.

I sette carnyx di Tintignac furono sepolti, a pezzi, per onorare chi seppe suonarli (e, verosimilmente, per sottrarli ai romani). Ciò che pare furiosa iconoclastia, nasconde il canto del cigno di un amore invincibile rotto solo dalla morte. Lo stesso accadde anche per i litui. E infatti il lituus di Pian di Civita, forse dopo aver suonato nel corso di un rito di fondazione, così come in diverse culture contemporanee si versa del vino al suolo, venne reso inutilizzabile: piegato in tre parti e seppellito insieme ad altri simboli etruschi del potere: uno scudo e un ascia, analogamente defunzionalizzati.

Nessuno finora possedeva le capacità di lavorare alla ricostruzione di strumenti antichi. John Creed, Jean Boisserie e Alessandro Ervas, grazie all’Emap, le hanno sperimentate e saranno domani in grado di tramandare i loro insegnamenti. Sono esperti di metallurgia che lavorano in maniera artigianale classica, ma con una sensibilità artistica. Hanno collaborato con archeologi e musicologi. Hanno prodotto sentimenti, non fredda archeologia sperimentale.

«BISOGNA SVUOTARE la mente dai pregiudizi», ammonisce John Kenny. «E così, giudicando liberamente, siamo partiti da specializzazioni personali per disegnare un ampio punto di vista. Se per ricostruirli seguiamo le stesse tecniche antiche e usiamo gli stessi metalli, avviene il miracolo per cui gli strumenti iniziano a parlare da soli, prendendo il sopravvento. Così impariamo a conoscerli, vincendo il tempo perduto. Pensavamo che il lituus avesse possibilità limitate; abbiamo invece scoperto che ha un carattere fantastico. Si può suonarlo forte e piano, velocemente e lentamente, con un’estensione che va da tre ottave e mezzo a quattro e mezzo. E il carnyx mi ha permesso di sperimentare tecniche antiche utilissime nel presente del mio mestiere…», conclude con orgoglio John, sollevando lo strumento e appoggiandolo sulla schiena del figlio Patrick per suonarlo. Quello che ne esce fuori non è un vento. È la cultura delle nostre radici che riprende fiato. La natura, sola, non può tutto.