Nel marzo del 1985, quattro anni prima della morte, Samuel Beckett rilasciò l’autorizzazione a divulgare la sua corrispondenza, raccomandando a Martha Dow Fehsenfeld, curatrice della pubblicazione, di restringerla ai brani che avessero «attinenza» con il suo lavoro di scrittore. Sarebbero, a questo proposito, soprattutto le missive indirizzate all’amico Thomas McGreevy a racchiudere la maggior quantità di indicazioni: proprio quelle che costituiscono l’asse portante del primo volume delle Lettere di Samuel Beckett, tradotte per la prima volta da Massimo Bocchiola e Leonardo Pignataro (a cura di Franca Cavagnoli, Adelphi, pp. CVI-528, euro 50,00).

In realtà, in questi messaggi inviati fra il 1929 e il 1940, Beckett del suo lavoro parla poco e in termini distruttivi, affannandosi più che altro sul paradosso che stringe in una morsa la sua in-attività letteraria. Per quanto gli risulti una «faticaccia schifosa», condannata allo scacco di una rabbiosa accidia, la scrittura equivale per Beckett a una necessaria procedura di espurgazione del corpo, che consiste nell’infliggere ai lettori le secrezioni – sanguigne, spermatiche, o più spesso escrementizie – del «marasma mentale» in cui l’io «suda e barcolla». E tuttavia questa produzione, che sembra precipitare nel fallimento ancor prima di avere inizio, reclama per sé spazi e diritti alla stessa stregua della defecazione e di altri atti fisiologici. Poco importa poi se le liriche di Ossa d’Eco, i racconti di Più pene che pane o i romanzi come Murphy, che si susseguono in questi anni ancora lontani dal successo di Aspettando Godot, costituiranno una sorta di residuo organico, destinato a sollevare «berci di fastidio». Beckett continua a compiere «sforzi inauditi» per dire ciò che mai riuscirà a dire, e per pubblicare, al di là di ogni decoro, ciò che nessuno «vorrà ascoltare».

Nebbia e sottomissione
Anche il resoconto della «vitaccia plumbea» che Beckett trascorre fra Parigi, Dublino, Londra e la casa paterna di Cooldrinagh, non esita a piazzarci di fronte a situazioni meno paradossali. Dopo essersi rifiutato di proseguire la «grottesca commedia» dell’insegnamento presso il Trinity College, Beckett si raffigura come un prigioniero che muore dalla voglia di «essere da un’altra parte» e, allo stesso tempo, non tollera di andarsene, divorato dal senso di colpa verso genitori ai quali non sa giustificare né la sua apatia né il «crimine» della letteratura. La benché minima «riflessione» basta a paralizzarlo: non gli resta che guardarsi vivere come un «vegetale» o un «vecchio cadavere» evirato, anestetizzandosi a forza di camminate e visite alle gallerie d’arte, oppure leggendo come un forsennato opere che gli provocano spasmi di cavillosa acrimonia. «Dall’alba al buio – confida lo scrittore a McGreevy – nient’altro che nebbia e sottomissione».

Ben presto, in questo «rebus» dove tutto è «nullo», Beckett viene assalito da crisi di panico e palpitazioni notturne, tanto spaventose da indurlo, per «paura della morte», ad affrontare un percorso d’analisi con Wilfred Bion. Ma anche se la terapia lo spingerà a riconoscere un morboso complesso di «superiorità», da imputarsi agli eccessi di «selvaggio» amore materno, lo scrittore insisterà nel praticare la sua «non-esistenza», rivendicando anche durante un lungo soggiorno in Germania il diritto alla solitudine e all’immobilismo progettuale. La sua vita, per il momento, resta una «commedia» recitata in «un’estasi di accidia» da un San Sebastiano «che simula di soffocare le urla».

Scomode trappole
La comunicazione epistolare, in simili condizioni, finisce per scontare lo stesso paradossale statuto della scrittura di finzione, ma si ritrova ad utilizzare misure più drastiche. Per trascinarci nell’incubo della sua «non-esistenza», Beckett si avvale infatti di due preziosi quanto discutibili alleati. Da una parte, non sa reprimere in nessuna occasione la mania delle allusioni letterarie, che gli permettono sia di complicare il mistero della sua personalità dietro un paravento di citazioni colte, sia di mettere sotto torchio il livello culturale del destinatario.

all’altra, soprattutto quando vuole riuscire «spiritoso», si abbandona alla sferza di un turpiloquio sarcastico, che assommandosi al gusto per il gioco di parole e alle contraddizioni disseminate nel discorso, contribuisce a rendere ogni lettera un’insostituibile valvola di sfogo per le nevrosi del mittente.
A farne le spese, in ogni caso, siamo noi lettori autorizzati, che per smascherare gli enigmi in codice dell’io siamo spesso obbligati a ricorrere alle note esplicative di questa edizione delle Lettere, oppure, anche quando non ci lasciamo scandalizzare dalle volgarità di Beckett, ci sentiamo invischiati in una scomoda trappola. Perché le Lettere non si limitano a proporsi come l’ennesimo esempio di una scrittura epistolare «equivoca», che ci allontana – come ha osservato Kaufmann – proprio quando sembra volerci avvicinare. Da una parte all’altra della sua corrispondenza Beckett ci chiede di prestare ascolto a una sciarada di «sanie verbali», «geremiadi» e «sproloqui», formulati da un io che si proclama più volte «inadatto» a scrivere lettere e non ha nulla da dirci «né dentro né fuori», eppure insiste ad infliggersi alla nostra attenzione, apprezzando chiunque continui a «spremersi le meningi» sui suoi tormenti.

Non è tuttavia necessario scervellarsi per comprendere che proprio tra le «geremiadi» si nasconde la più elementare funzione della fatica epistolare di Beckett. È facile accorgersi che le Lettere ci conducono a poco a poco nel bel mezzo del «non-senso» che, dopo aver torturato le liriche di Ossa d’eco, assillerà sotto forma di congegno narrativo le tribolate accidie dell’eroe sui generis di Murphy, per poi ripresentarsi a imprigionare, uno dopo l’altro, anche i protagonisti del teatro di Beckett.

Retroscena concettuale e visivo
Il nevrastenico sproloquio epistolare scatenato dall’insofferenza d’esistere si propone allora come un preliminare banco di prova dell’arte. Infatti le Lettere, attraverso le loro oscure disquisizioni su arte, letteratura e filosofia, non aprono soltanto uno spiraglio sulle opere che andranno a costituire il retroscena concettuale e visivo della produzione letteraria, ma si presentano anche come una sua decisiva anticipazione sotto mentite spoglie quando richiamano in scena l’assurdo dramma dell’io.

Non è un caso se James Knowlson in Damned to Fame – l’unica «biografia autorizzata» dallo stesso Beckett – si è incaricato di inventariare le esperienze di vita che lo scrittore, previa elaborazione artistica, ha riutilizzato nelle sue creazioni. Mentre ci testimoniano, a modo loro, che l’assurdità del paradosso è stata scontata dall’io nella carne e nella mente prima di essere riversata con immani sforzi sulla pagina scritta, le Lettere vogliono garantirci la presenza di un invisibile, e a tratti scontato cordone ombelicale teso fra l’io e la letteratura. Quel cordone – ci assicura Beckett in deroga alle teorie sulla «morte dell’autore» – è lì, esiste e deve essere considerato come parte integrante del suo lavoro: deve farcelo anzi apparire come una sorta di diretta e inesorabile conseguenza.

Non è ancora il momento di chiederci, con troppo anticipo sulla pubblicazione dei successivi volumi, se le Lettere obbediscano a una strategia architettata nel corso degli anni, oppure a una necessità riconosciuta dallo scrittore soltanto a posteriori. «Non c’è niente da fare e niente del minimo valore sarà fatto – ripeteva Beckett a McGreevy – ma si va avanti, come gli accidiosi».