«Mi sono costruito un mio personale costume. Le gambe stavano dentro una colonna di cartone blu brillante, che arrivandomi ai fianchi mi faceva sembrare un obelisco. Sopra indossavo un grandissimo bavero ritagliato nel cartone, all’interno rivestito di rosso scarlatto e all’esterno di color oro. Completava il tutto un alto copricapo da sciamano, di forma cilindrica, dipinto a righe bianche e blu». In una breve nota di diario, Hugo Ball registra la sua prima apparizione artistica al Cabaret Voltaire di Zurigo. È la sera del 23 giugno 1916: nella foggia che l’amico Hans Richter definirà quella di un «vescovo magico», il poeta sale su un podio di legno scuro e nell’oscurità declama, lento e solenne, «Gadji beri bimba glandridi lauli lonni cadori». Sono i famosi versi, senza senso e senza nesso, forse i più emblematici della stagione Dada, che aveva mosso i primi passi poco tempo prima, sul retro di una taverna di Zurigo.

Qui Hugo Ball e la moglie fondano Cabaret Voltaire, teatro – per pochi, vorticosi mesi – di incontenibili spettacoli serali, un’«arena per pazzesche emozioni» dove la musica si alterna alla danza, alla poesia, al teatro, in un’euforia creativa che contrasta, volontariamente, con l’Europa delle trincee e che è attraversata da un’unica linea comune: la provocazione e l’irriverenza. «Finora nessuno ne sapeva niente, domani tutta Zurigo ne parlerà», afferma ancora Ball nell’estate dello stesso anno. Non sarà smentito: Dada è un temporale, breve e violento, che si abbatte sulla neutrale Zurigo, raccogliendo anime dissacranti e provocatorie, personalità ribelli, stravaganti e politicamente scorrette, passando veloce, nel giro di un anno, dal Cabaret Voltaire alla Galerie Dada, dove si espongono le intemperanze artistiche di tutte le avanguardie europee sotto lo stesso tetto del fabbricante di cioccolato Sprüngli, per poi sconfinare in Germania, in Francia e oltreoceano.

Di questa ebbrezza culturale, Hugo Ball è attore tra i principali. E tuttavia il performer, il pioniere della poesia sonora, lo sperimentatore, il giullare della parola, l’uomo del nonsense sono solo alcune facce, tra le molte che costruiscono la sua personalità, in un terreno amplissimo e diseguale che si distende tra l’anarchismo e l’ascesi.

Forse la più completa testimonianza di un arco concettuale così articolato si ritrova nell’accumulo di appunti e note che Ball redige dal 1913 al 1921, che assembla nel 1926 e pubblica l’anno dopo, nella forma di un ininterrotto diario, con il titolo Fuga dal tempo e il sottotitolo Fuga saeculi. Un diario che conosce ora una nuova edizione italiana (Mimesis 2016, pp. 358, euro  26,00), preceduta da un’ampia introduzione di Riccardo Caldura, cui si deve la cura dell’intero volume.

Pur nella frammentarietà della scrittura diaristica, resa ancor più sincopata dalla difficile composizione di annotazioni difformi, sparse in taccuini compilati in poco meno di un decennio, il diario restituisce l’ampiezza di un pensiero che armonizza concetti discrepanti, quando non antitetici, almeno a prima vista.
Davanti al lettore si squadernano così, frammiste a schegge di vita privata, riflessioni su argomenti eterogenei, dove il pensiero attraversa, senza steccati e con grande intensità, i domini del teatro, della filosofia, dell’arte, della letteratura, della religione, in una scrittura che tocca, a tratti, il taglio dell’aforisma e le punte dell’arguzia. Nelle pagine del diario, il radicalismo poetico, il pacifismo, il socialismo libertario e l’idea anarco-rivoluzionaria convivono, senza stridore, con la mistica medievale e bizantina, tanto che – in un appunto estremo, datato giugno 1921, forse la massima acrobazia di un funambolo della parola come Ball – la parola «Dada» è intesa come la duplicazione delle iniziali di Dionigi l’Areopagita. Quella di Ball è una vita breve, ma posta su più confini, e guidata da un tentativo di armonia discorde, dove convivono «il socialista, l’esteta, il monaco».

L’introduzione al volume riflette bene la composizione dell’opera in due metà, ciascuna suddivisa in altrettante sezioni. La prima parte, con le riflessioni dal 1913 al 1917, mostra un rincorrersi di concetti legati alla sperimentazione artistica e all’attivismo politico, mentre nella seconda – dal 1917 al 1921 – l’artista si rovescia nel santo, l’azione sul presente dilegua all’avanzare di una religiosità diffusa, oscillante tra mistica orientale e devozione ascetica. Fino a incardinarsi nel cattolicesimo, cui Ball fa ritorno nel 1920, mentre il fermento della metropoli lascia il posto alla quiete dei borghi ticinesi.

nche in questo senso è forse da intendersi il secondo titolo del diario, dove Fuga saeculi fa risuonare l’omonimo testo di Sant’Ambrogio e richiama, per rilanciarlo nel contemporaneo, il contemptus mundi medievale. In parallelo, negli stessi anni, il pensiero politico di Ball rimpiange l’universalismo del Sacro Romano Impero, sprofondato, a suo dire, nel tragitto che dal protestantesimo conduce al nazionalismo moderno, in cui Ball vede la causa del primo conflitto mondiale e, con una sensibilità non comune, il prepararsi di tempi peggiori. Quello di Ball è un itinerario della mente verso Dio, mai dimentico della partenza sui palcoscenici di Zurigo. Asceta irriverente e scapestrato, era mosso dal continuo tentativo di gettare ponti tra zone del pensiero solo apparentemente lontane e divergenti. Non c’è forse, in accordo a questa idea di sintesi, una contiguità tra la lingua disarticolata dello sperimentalismo Dada e lo sfrangiarsi della parola nel silenzio dell’ascesi?

Sembra suggerirlo lo stesso Ball in una nota finale sui culti misterici, dove l’iniziato è descritto in termini che potrebbero figurare a glossa di una qualche poesia sonora, lanciata verso il pubblico in una serata al Cabaret Voltaire: «Non può più parlare, non può più comprendere la lingua usuale: in questo modo la lingua degli angeli e degli spiriti elevati può andargli incontro: oscure, incomprensibili sequenze di parole».