Una buona notizia per il pubblico televisivo: dopo il successo trionfale del Barbiere di Siviglia andato in onda a dicembre, l’Opera di Roma e Mario Martone preparano per Rai Cultura La Traviata di Verdi in edizione cinematografica, girata interamente tra la sala i palchetti e il palcoscenico del Costanzi. L’andata in onda è prevista su Rai 3 il prossimo 9 aprile alle 21.20, ma già da un mese Martone, con il direttore Daniele Gatti e il cast e tutti i tecnici del teatro stanno provando e girando quello che sarà un vero e proprio film, come è stato il Barbiere. In settimana le ultime riprese, poi il montaggio e l’edizione, per andare in onda tra poco più di un mese. Una serata che di certo segnerà un punto a favore dell’ente lirico romano, rispetto alla fortunosa inaugurazione scaligera dell’ultimo Sant’Ambrogio su RaiUno.

LE PROVE E I FRAMMENTI che si possono sbirciare in questi giorni promettono già molto, anche perché Martone sembra oggi uno dei pochissimi registi capaci di maneggiare con la stessa maestria il linguaggio della parola, del canto e quello del cinema. Sempre assistito e guidato (con pazienza e spirito di piena collaborazione) da Daniele Gatti che di certo sarà capace di entrare nel film, come ha fatto in sella a una moto nel prologo del Figaro.
La Traviata del resto ha una dimensione tragica, per quanto commovente e sentimentale, da risultare un po’ più «scabrosa» del gioco rossiniano. Verdi, nella sua opera forse più celebre, con il solido impianto del librettista Francesco Maria Piave, scansiona tutto il rapporto d’amore con un laico furore che attraversa tutte le sue declinabili contraddizioni. Disseminando però una leggerezza che si fa avanti dallo sfondo, e che sorride, mentre commuove, degli eccessi cui la «passione» conduce senza freno. Forse anche per questo il bisturi analitico di Martone ne lascia percepire la complessità, il senso del gioco (anche tragico) in cui una società come quella francese, da Dumas padre (forse autobiografico) di Margherita Gautier Dame aux Camelias, fino ai fasti del secondo impero, scopre complessi rapporti di morale e perfino di classe.

foto di Fabrizio Sansoni

MA ATTRAVERSO la grandiosa elaborazione di Verdi (e la fama incomparabile delle sue arie nell’orecchio e nel linguaggio di tutti), anche la vicenda dell’infelice Traviata si rivela un passo ulteriore da parte del regista in quello scavo senza fine che da anni va conducendo in un’ottocento che ha ancora molte cose da dirci, e da spiegarci, anche rispetto a oggi. Si pensi solo al Leopardi Giovane favoloso o al Risorgimento in cui Noi credevamo, di cui Martone ci ha svelato con ferma grazia e metodo rigoroso i volti nascosti, generalmente offuscati dalla retorica. La platea del teatro diverrà qui un enorme piano spettacolare, che solo la buca dell’orchestra separa dal palcoscenico, dove un lettone rosso sangue campeggia sulla nera distesa dell’ultimo atto. Il palco reale è, coerentemente con la storia, il più regale dei salotti, anche di quelli «scostumati» della casa di Flora. Ma il protagonista a sorpresa dell’intero impianto scenico ideato dallo stesso Martone, è il fastoso e sconfinato lampadario, di centinaia di gocce di Boemia, che fu issato al centro del tetto, dentro una apposita cupola, del glorioso Costanzi che nel 1927 il regime trasformò nel Teatro Reale dell’Opera. Quel lampadario incombe su fatti e misfatti del racconto, a mezz’aria, ma anche scendendo ancor più dappresso a quella soffocante «mondanità».

PROPRIO IN QUESTA cornice, risalta la novità di un elemento, altra possibile chiave di lettura e fruizione dell’opera: le danze. Siamo da sempre abituati alla massima classicità dei gran balli che roteano con continuo fruscìo nell’elegante solennità (a un passo dal pompier) della casa che ospita la festa iniziale, Zingarelle comprese. Qui invece scopriremo, sotto la luce abbagliante del suddetto lampadario, che quelle creature scollacciate e colorate (i costumi firmati Anna Biagiotti, scelti nel mirabolante deposito storico del teatro) danzano sì una sorta di loro alcolico ultimo valzer, ma stacchi e languori della loro postura scoprono dentro la loro formalità una sorta di brivido rock. Parlano allo spettatore di oggi, col loro corpo e i loro scatti. Per la prima volta collabora a una regia di Martone la coreografa Michela Lucenti, con i performer del suo Balletto Civile,mescolati ai danzatori del teatro dell’Opera, e si sente, nella formalizzazione delle figure, una ventata spiccata di contemporaneità, un coinvolgimento che può mettere lo spettatore in una più stretta simbiosi con lo spettacolo. Fermo restando il motto portante della partitura, Sempre libera degg’io….
La grandezza definitiva dell’impresa si incarnerà poi soprattutto nella protagonista, il soprano americano di origine cubana Liseta Oropesa, con Saimir Pigu e Roberto Frontali, rispettivamente figlio e padre Germont. Un insieme, quello dello spettacolo, da non perdere, per il suono, la vista, e per il piacere dell’intelligenza.