Nel ricorrente, e in anni recenti un po’ stracco, dibattito sull’identità europea, e sull’esistenza di una letteratura del vecchio Continente capace di nutrire un immaginario condiviso, non di rado viene evocata, come possibile modello positivo, la cosiddetta Repubblica delle Lettere: una comunità sovranazionale di scrittori e filosofi, collezionisti e filologi, che dal Cinquecento di Erasmo al Settecento degli Illuministi ha coltivato la dotta urbanità del dialogo erudito, a dispetto delle guerre innumerevoli (religiose e no) che in quei tre secoli hanno insanguinato quasi ogni angolo di terra, fra l’Atlantico e gli Urali. Grandi epistolografi in lingua franca (latino e poi francese), i membri di questa comunità extraterritoriale si scambiavano idee e aggiornamenti scientifico-culturali, e così tenevano in vita un ideale di universalismo del sapere e di pax litteraria (meno irenica, in realtà, di quanto spesso si pensi), prima che le rivoluzioni di classe e i nazionalismi ottocenteschi accentuassero divisioni e contrapposizioni anche nelle élite colte, costringendo i savants a prendere partito, a rinunciare al privilegio aristocratico di un sapere super partes, insomma a diventare, con neologismo affermatosi durante l’affaire Dreyfus, «intellettuali»: più o meno organici, più o meno impegnati, ma in ogni caso consapevoli del fatto che nessuna conoscenza è neutrale, nessun valore di cultura privo di rapporti con la politica, l’economia, la storia.

Proprio il rifiuto di questa consapevolezza novecentesca è il centro intorno al quale gravitano i saggi – di argomento in realtà disparato: le forme della conversazione nell’Europa delle Corti, la nascita delle Accademie, l’epistolografia umanistica, il genere letterario delle Vite – raccolti nell’ultimo libro di Marc Fumaroli, La Repubblica delle lettere, uscito in Francia nel 2015 e ora pubblicato da Adelphi (traduzione di Laura Frausin Guarino, pp. 464, euro 32, 00). Duplice è infatti lo scopo della nostalgica rievocazione della comunità dei dotti d’ancien régime, «permanente concilio degli spiriti» e «cittadinanza ideale» astratta dai conflitti della storia: da un lato il richiamo ai valori condivisi di una tradizione umanistica che ha consentito il dialogo oltre le differenze di religione e nazione, e ancora oggi può costituire un punto di riferimento per i processi di integrazione europea; dall’altro l’affermazione militante dell’«unità dell’Europa cristiana» e classicista, sulla scia di una tradizione di pensiero nobilmente reazionario (da Novalis a Valéry). Non senza una rivendicazione snobistica dei privilegi del letterato puro, avulso da ogni compromissione con l’engagement politico.

Non tutto è legittimo
Nulla di sorprendente, per chi conosca i precedenti libri di Fumaroli. Del resto, essere cattolico e reazionario è legittimo, soprattutto se non impedisce di scrivere volumi importanti sul grand siècle francese, come L’età dell’eloquenza (1980), e su Chateaubriand (2003), o un pamphlet non privo di provocatoria intelligenza contro l’interventismo dei poteri pubblici francesi in materia di creazione artistica (Lo stato culturale, 1991). Meno legittimo pare invece addebitare all’invenzione della stampa le guerre di religione del Cinquecento (colpa del libero esame delle Scritture, giacché la cattolica ignoranza avrebbe garantito la pace); o postulare un’improbabile comunanza d’intenti fra Repubblica delle Lettere e Curia, o addirittura, per la proprietà transitiva, fra Galileo e i suoi censori; e perfino convertire la filologia, con toni da apologetica parrocchiale, in «leale sottomissione dello spirito umano al suo creatore»; o, ancora, individuare, contro ogni evidenza storica, nel potere di «un’élite culturale e morale» il migliore antidoto contro «le passioni e le violenze» del volgo.

Ancor meno legittimo è ignorare – o fingere di ignorare, con superciliosa nonchalance – la più elementare deontologia della ricerca storica: in cui il caso singolo può diventare emblematico solo se è indizio, o sineddoche, di fenomeni più ampi; mentre in tutto il libro Fumaroli non soltanto pretende di fare storia delle élite prescindendo completamente dai dati quantitativi e dalle condizioni materiali dell’attività intellettuale (riesce a non citare nemmeno una volta Lucien Goldmann), ma procede come quei laureandi che, innamorati del proprio microscopico argomento di tesi, cercano goffamente di promuoverlo a emblema universale. Così, per fare due esempi, un mediocre collezionista e epistolografo di primo Seicento, Nicolas-Claude Fabri de Peiresc, assurge al ruolo di Principe della Repubblica delle Lettere; e i vieti stereotipi sui caratteri dei diversi popoli europei, propalati nel Seicento da John Barclay e, in modi poco meno grossolani, nel primo Novecento da Hermann von Keyserling, sono proposti come preziosi contributi ancora d’attualità.

Ingiustificate faziosità
Sprezzante con i suoi avversari di sempre – la sociologia marxista, la storiografia delle «Annales» (che la non impeccabile traduttrice, Laura Frausin Marino, declina al maschile) –, Fumaroli è ditirambico con i suoi maestri, tanto da fare di due onesti eruditi di vecchia scuola sorbonarda, René Pintard e Paul Dibon, gli ideali antagonisti di Pierre Bourdieu, a sua volta mai citato, ma costante bersaglio polemico implicito di un libro la cui impostazione di fondo, di là dai contenuti più o meno interessanti, più o meno marginali, dei singoli saggi, consiste precisamente in questo: nell’esaltare l’erudizione e l’impressionismo salottiero contro il metodo, lo snobismo contro l’analisi materialista dei rapporti di forza e dei privilegi sociali.

L’affinità elettiva di un editore dichiaratamente snob (Roberto Calasso, di cui Fumaroli incensa un «mirabile saggio») ha portato questo tomo inutile nelle librerie italiane; la deferenza dei recensori (magari di sinistra, come Lina Bolzoni sul «Sole») gli garantirà un qualche successo commerciale. Intanto si discorre da trent’anni, e di recente anche su queste colonne, di crisi della critica; mentre chi scrive ha letto di recente, per dovere d’ufficio (concorso di abilitazione), libri molto belli di autori trentenni, pubblicati da minimi stampatori come Aguaplano o Fiorini. Senza indulgere a retoriche farlocche (TQ, rottamazioni), sarà lecito auspicare che, per cercare un’uscita dalla crisi, la grande editoria conceda spazio a qualche giovane, anziché dar fiato ai tromboni del 1932.