Dieci giorni di successo di pubblico, alcuni spettacoli importanti anche se il loro format (e l’età dei loro protagonisti) non era proprio di ultima generazione, l’abbandono definitivo della durata short a vantaggio di una durata media abbondantemente sopra l’ora, un titolo generale evocativo quanto «masochista»: Nostalgia di futuro. E’ la decima edizione di Short Theatre, la manifestazione settembrina da poco conclusa, e diretta da Fabrizio Arcuri, che conferma il proprio sicuro fiuto (e capacità, naturalmente) nel campo sociologico dell’organizzazione, anche più che in quello registico nei propri spettacoli (anche se il direttore dello stabile romano Antonio Calbi lo ha invocato pubblicamente come «regista di riferimento»).

Tra le decine di titoli che si sono alternati in quelle fitte serata alla Pelanda del vecchio Mattatoio romano, primo protagonista, il giorno dell’inaugurazione, è stato naturalmente Danio Manfredini. L’artista (uno dei pochi veri maestri per i più giovani, attualmente direttore della accademia drammatica del Bellini di Napoli) va costruendo negli anni le diverse puntate di un teatro esistenziale, una sorta di romanzo teatrale che dalla presentazione delle proprie fonti (una per tutte, Genet) è passato a raccontare i concreti momenti e campi di una vita riccamente spesa per il teatro: dai centri sociali ai cinema porno, alle straordinarie qualità canore che ne fanno in assoluto il miglior cantore dei nostri anni, arrivando a dar voce con la sua chitarra a canzoni d’autore meglio dell’autore stesso, Battisti compreso. Quello che ha mostrato a Short Theatre è una sorta di summa delle proprie affinità teatrali, dal titolo non casuale Vocazione. Una galleria di desideri teatrali mai fredda o pretenziosa, ma capace di scavare anche nei personaggi shakespeariani i propri dubbi e i propri assilli, le proprie simpatie e la propria grandezza. Di attore e di creatura umana.

Altra presenza capace di catturare e di conquistare all’inquietudine, è stata Silvia Calderoni, protagonista totale di quella che può sembrare una autobiografia, più o meno personale e realistica, costruitale addosso dai Motus Daniela Nicolò e Enrico Casagrande: MDLSX, ovvero un atlante ricco, visionario e travolgente di una sessualità non scontata (e di cui il nostro giornale si è ampiamente occupato da Santarcangelo). Anche le quattro performer berlinesi She She Pop erano già state viste in Italia (a giugno alle Colline torinesi), ma la loro apparizione romana ha letteralmente coinvolto e catturato il pubblico.
Quattro signore dal vivo, capaci di parlare, danzare e cantare, che si confrontano e moltiplicano con le loro rispettive madri, in una sorta di corpo a corpo, individuale e insieme collettivo, grazie alle tecnologie che ci rendono quelle mamme ben vive, visibili e dialettiche.

Perché come il titolo della performance suggerisce, The Rite of the Spring è proprio un percorso dentro e «contro» la Sagra della primavera di Stravinskij. Un capolavoro universale, che esse però vogliono rileggere e rovesciare con tosta determinazione. Così che mentre si scivola sui confronti di ottoni stravinskiani che pure hanno aperto la musica del ‘900 al nuovo, un secondo strato di riflessione, pensiero e fisicità si insinua nello spettacolo. Una partitura, o almeno un racconto, da rovesciare, a partire da ricordi e sensazioni, e dai rapporti materni, che ognuna di loro ha sedimentato nel tempo. E continua a vagliare ancora oggi, dando al teatro inusitate, ed eccitanti, nuove possibilità.