Per Norman Mommens l’arte e, in generale, la cultura avevano una «funzione-base umanizzante», e riguardavano l’essere umano nel suo complesso, e dunque la vita, l’abitare la terra, il rapportarsi con l’Altro. Di conseguenza non erano tanto le questioni prettamente estetiche a suscitare il suo interesse. La scultura era una modalità attraverso la quale si poteva percepire, con i sensi liberi dalla tirannia del fine, l’accadere del mondo. Per questo egli riteneva che la preoccupazione maggiore dell’artista fosse «per la sua precipitazione immaginativa nello sconosciuto. Il valore del risultato può essere discutibile, ma l’atto stesso, segno del creatore, sarà sempre attinente alla nostra umanità».Così, le sculture possono anche essere sepolte, nascoste – il loro potere terapeutico, persino taumaturgico, non verrà meno. All’opera compiuta viene assegnata minor importanza rispetto all’atto creativo: è appunto il precipitare nello sconosciuto ciò che conta nell’arte – un’espressione, questa, che presenta tangenzialmente qualche affinità con l’«irrompere» e l’«inabissarsi» dell’anima nella divinità di cui parla Meister Eckhart.

La cava nella brughiera

Con idee simili si può comprendere come il mercato dell’arte non fosse proprio congeniale a Mommens. Egli preferiva dedicarsi a quello che chiamava il «duro confronto» con l’Imponderabile.E colpisce la forza e la perseveranza, accompagnata sempre da un atteggiamento positivo nei confronti della vita, con cui seguì la sua strada. Convinto della necessità della prova, della fatica di misurarsi con l’Ignoto, nei tardi anni cinquanta soggiornò da solo in una cava di granito nella brughiera tra St. Breward e Bolventor in Cornovaglia. Fu una sorta di rito di passaggio: «In pieno giorno la trincea è un canyon impressionante; passarci la notte è un banco di prova. […] Tutto ciò mi portò a riflettere sulle circostanze e gli eventi apparentemente fortuiti che mi avevano indotto a tagliare tanti ponti alle mie spalle e guidato fin lì.Durante la permanenza nella cava erano le mie notti e l’incanto della luna, che pareva viva, a prepararmi ad affrontare la necessità motivante del lavoro che avevo intrapreso». In questo luogo, di giorno Norman lavorava la pietra, imparava e riceveva consigli dagli operai della cava, condividendo saperi ed esperienze come sempre farà nel corso della sua vita.

I Serafini

È in questo periodo che mise a punto l’«alta scultura» che aveva in mente e che può essere considerata una, tra le diverse altre, delle figure più caratteristiche della sua produzione, sulla quale tornò spesso negli anni a venire variandola nell’aspetto e nei materiali utilizzati: quella del Serafino – che qui prendiamo come uno dei momenti di una vasta produzione che il disvelamento dell’archivio dell’artista, curato con passione e perizia da Ada Martella, ha finalmente portato alla luce in tutta la sua ricchezza e complessità.In Mommens, dunque, queste metamorfosi della figura dell’angelo diventano figure a piombo estremamente stilizzate con le braccia unite protese in alto, le gambe dritte in tensione che la forza di gravità tiene inchiodate al basso, le punte dei piedi ritte e fuse in una forma convessa, le mani che sorreggono modellando un tutt’uno concavo. A volte, non sempre, lievi segni di divaricazione accennano lo stacco tra le gambe e tra le braccia. Ma il blocco di pietra mantiene tutta la forza dei monoliti arcaici, alieni dalla dispersività dell’articolazione. Come racconta Philip Trevelyan, i Serafini «presero origine da uno schizzo che Norman fece dopo la guerra, nel quale rievocava il salvataggio di poveri innocenti in fin di vita da un cinema colpito dalle bombe, al confine tra la Germania e l’Olanda. […] Per estrarre le vittime, era necessario sollevare sezioni del pavimento collassato e sostenerle in alto a braccia».I Serafini, dunque, medicano il dolore e, nonostante tutto, annunciano la vita. Inoltre, le statue assumono immediatamente una rilevanza cosmica. Quei corpi stesi verticalmente, allungati, protratti, schiudono di fatto uno spazio-tempo vitale tra un sopra e un sotto. O meglio: aprono un vuoto – un intervallo – che rende possibile il trascorrere e l’abitare. Separano e, nel contempo, mettono in relazione un basso e un alto, impedendo il collassare dell’uno nell’altro in un’aderenza senza resto, mortifera.

La «ferocia creativa»

Mommens viaggiò molto a nord e a sud, dalle Ebridi alle Cicladi, tracciò un percorso «a forma di falce»; lo seguì.Conobbe quella che chiamò la «ferocia creativa». Fu in Toscana, a Carrara, nella Penisola Iberica (Catalogna) e in Grecia, a Naxos, alla ricerca di pietre da scolpire e infine in Salento dove nella Masseria a Spigolizzi compì insieme alla sua compagna, la scrittrice Patience Gray, il proprio «esodo creativo», ossia l’«effettiva esperienza esogena», secondo le sue spesso enigmatiche parole, perché per lui la creatività era una «forza costruttrice di forme» di natura dapprima cosmica e poi biologica.Credeva che «essere pensante» volesse dire vivere direttamente (per quanto possibile) la realtà. La sua immaginazione s’infiammò seguendo il moto apparente del sole attraverso le dodici costellazioni, come gli antichi guardiani dei cieli; più volte tornò sull’incanto della luna e delle sue fasi; esaltò il «Partecipante» contro il progresso che si sostituisce al Tutto; studiò, disegnò, dipinse e scolpì; per lui l’arte doveva stabilire rapporti, coordinare, mettere in comunicazione sfere diverse dell’essere (in questo fu uno degli ultimi grandi artisti della proporzione). Esercitò la scrittura e pubblicò in particolare un libro, Remembering Man, scritto – disse – «nello stesso modo con il quale scolpisco la pietra», in cui diede forma al suo pensiero; apprese dalla natura e s’applicò alla geometria sacra; tentò di conciliare gli antichi miti con la moderna cosmologia; curò l’orto, lavorò la vigna; comprese la continua festa celebrata «da un capo all’altro del mondo» dalle correnti magnetiche che avvolgono il pianeta; s’impegnò attivamente per la tutela del territorio nel Basso Salento. In breve, ebbe modo di immergersi di volta in volta nell’«azione del momento».

Un mondo fuori dal mondo

Ma non fu solo questo. Masseria Spigolizzi, infatti, diventò nel corso degli anni un punto d’incontro, di condivisione e di progettualità per moltissime persone. Ancora oggi, abitata dal figlio di Patience, Nicolas Gray, e dalla sua compagna Maggie Armstrong, generosi custodi della memoria, resta un crocevia di grande suggestione. Lo testimonia il fatto che l’organizzazione della mostra a lui dedicata a Presicce, nonché la pubblicazione del catalogo, è stata un evento corale di partecipazione dal basso, che ha visto coinvolte tre piccole comunità (Presicce, Acquarica del Capo e Salve), undici associazioni e tutti gli amici che hanno risposto all’appello da mezzo mondo attraverso una campagna di crowdfunding. Un’onda lunga che non finisce di montare.

NOTE BIOGRAFICHE E APPUNTAMENTO

Lo scultore Norman Mommens, nato ad Anversa (Belgio) nel 1922, da padre fiammingo e madre inglese, e morto a Spigolizzi (Salve, Lecce) nel 2000, dopo aver vissuto in Salento negli ultimi trent’anni, sarà ricordato con la mostra Norman Mommens. L’Archivio Disvelato, con sonorizzazione a cura di Gabriele Panico (una composizione in sette tappe dal titolo Stauberforms). A cura dell’Archivio Digitale Norman Mommens e organizzato dall’Associazione Culturale Noùs, l’esposizione avrà luogo nell’ex Convento degli Angeli a Presicce (Lecce), dal 15 al 23 giugno. Il catalogo, con testi in italiano e in inglese, curato da Ada Martella, contiene interventi di: Philip Trevelyan, Norman Janis, Christine Dirnaichner, Virginio Briatore, Alfonso Cariolato, Ulrike Voswinckel, Ada Martella, oltre a una lettera inedita di Mommens a Helmut Dirnaichner e una poesia di Tonino Guerra. Nel corso della settimana sono previsti eventi collaterali. Per informazioni, Facebook: Archivio Digitale Norman Mommens.