Si scrive per dare forma alle cose che possiamo sentire ma non vedere o perché quando ci si siede davanti alla pagina bianca la soglia di attenzione si alza e si riesce ad ascoltarsi meglio. Si scrive per canalizzare la rabbia nei confronti di quel che non va nel mondo o per essere «uno squalo apocalitticamente a suo agio nelle profondità della psiche». O ancora, si scrive perché da bambini si avevano delle difficoltà con la punteggiatura o con l’ortografia e così invece di una s veniva fuori un amo da pesca o un frammento di filo spinato. O magari per raccogliere il mondo: per evitare che le immagini fragili, impalpabili come la delicata ragnatela di ghiaccio su un bicchiere da cocktail, si disperdano per sempre. Oppure si scrive perché non se ne può fare a meno.

Siamo ormai abituati a leggere raccolte di saggi e di interviste sulle tecniche di scrittura, ma In punta di penna Riflessioni sull’arte della narrativa (traduzione di Sara Bilotti e Luca Briasco, minimum fax, pp. 146, euro 12,00), l’agile volume a cura di Will Blithe, per molti anni editor di «Esquire», è un libro diverso. Riunisce infatti le riflessioni di dodici tra i più significativi autori statunitensi degli ultimi cinquant’anni sulle ragioni più profonde che li hanno portati a scrivere. E se alcuni ce le raccontano scegliendo la forma del saggio, altri preferiscono farlo narrando una storia o componendo un prezioso collage, in cui mescolano frammenti di vita e storie immaginate o abbozzate.

Spesso al fondo c’è un’impossibilità, se non vera e propria impotenza. Ann Patchett riesce a superare l’incapacità di tracciare sulla pagina lettere composte anziché sgraziate zampe di gallina puntando tutto sul contenuto: «Sii divertente. Sii arguta, e te la caverai». Per Norman Mailer, invece, la scrittura è l’unico modo che gli consente di giungere alla verità, facendogli provare un’emozione quasi mistica che prende forma «sulla punta della penna». Il più delle volte, però, è nel dolore che si annida la ragione più intima: «Scrivere mi danneggia fisicamente, senza dubbio, ma cosa ne sarebbe di me se smettessi di farlo?» si chiede William T. Vollmann, abituato alla compagnia discreta di un dolore cronico, e felice di aggredire a colpi di scalpello il blocco di tenebra di ogni nuovo racconto, finché non intravede le stelle minute che vi si nascondono dentro. Scrivere non ha mai dato piacere nemmeno a Joy Williams: per lei non è mai stato un «divertimento». E se non è dolore è comunque fatica: «Quando comincio a scrivere una storia, sento solo di marciare nel fango» dice Mary Gaitskill.

Jayne Anne Phillips capovolge invece il binocolo. Ora che siamo bombardati da informazioni e immagini, e che la rete «è una vena aperta», pochi sanno leggere con la concentrazione prolungata necessaria a comprendere, ad aprirsi una breccia nel caos. Leggere diventa un atto sovversivo. E scrivere diventa più che mai un atto di responsabilità nei confronti di chi legge.