L’articolo di Andrea Fabozzi, pubblicato sabato scorso, è assai importante e interamente condivisibile. E tuttavia, la nostra sensazione è che arrivi drammaticamente tardi e possa semplicemente – non è poco, però – alimentare un interessante dibattito, ma senza conseguenze pratiche sul piano politico-istituzionale e tantomeno su quello delle effettive condizioni di esecuzione della pena nel nostro paese.
Non diversamente sarebbero andate le cose, temiamo, se tale discussione si fosse sviluppata qualche tempo fa perché essa sconta, in ogni caso, un ritardo culturale e politico che si è fatto ormai enorme e, forse, insuperabile. La nostra posizione è nettissima e confermata dal fatto che uno dei tre disegni di legge in materia di amnistia e indulto presentati in questa legislatura è a firma Manconi. A scanso di equivoci, chiariamo subito – ma già questo chiarimento è tanto necessario quanto sottilmente ricattatorio – che questo disegno di legge non sarebbe di alcuna utilità al fine di evitare al leader del Pdl l’esecuzione della pena.
A Berlusconi non solo non potrebbe applicarsi l’amnistia, limitata ai reati con pena massima edittale non superiore ai quattro anni (e non è questo il caso), ma nemmeno l’indulto, che non varrebbe per le pene già ridotte da quello del 2006. Infine, non applicandosi l’indulto (né, tantomeno, l’amnistia), nessun effetto si proietterebbe sulla pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici.
Il nostro voler scindere totalmente le motivazioni di un ragionevolissimo provvedimento di amnistia e indulto dalle esigenze del centrodestra è del resto la logica conseguenza di una radicale differenza di prospettiva: da una parte una scelta di politica criminale, dall’altra una scelta politica tout court. Nella storia dell’Italia repubblicana solo in un’irripetibile occasione queste diverse motivazioni si sono sovrapposte, e fu all’epoca dell’amnistia firmata da Palmiro Togliatti, quando la sanatoria di un enorme mole di pene e processi pendenti si coniugò con la «soluzione politica» di molti reati commessi durante gli anni del fascismo e della guerra. Da allora in poi, i molti provvedimenti succedutisi di amnistia e indulto hanno avuto solo motivazioni di politica criminale, limitando l’amnistia ai reati minori e l’indulto ai residui pena di due-tre anni. E quando pure si sono affacciati tentativi di «soluzioni politiche» per pagine delicate della storia nazionale (i reati commessi con finalità di terrorismo e quelli di corruzione partitica), il sistema politico non ha mai trovato la convergenza necessaria per approvare i relativi provvedimenti di clemenza.
Ma, per tornare all’oggi, seppure volessimo cedere agli argomenti più suggestivi (ma non per questo veritieri) degli zelanti guardiani dell’antiberlusconismo, andrebbe ricordato che nello scrivere le norme, si dovrebbe avere cura dell’interesse generale e non del contro-interesse (così come dell’interesse) di un singolo. E che quindi, anche qualora si verificassero effetti collaterali positivi per l’Arci-nemico, questa non sarebbe una ragione valida per non approvare un provvedimento ritenuto utile e urgente.
Chi replica che «ci vuole ben altro» e che le misure di clemenza hanno un effetto solo temporaneo «e poi torna tutto come prima» si dimentica di indicare quale sarebbe la via alternativa, quella capace di offrire soluzioni strutturali e permanenti. La nostra opinione è semplice. In un sistema penitenziario alterato patologicamente e che versa in un costante «stato di emergenza», è necessario intervenire con misure «di emergenza». Amnistia e indulto, peraltro previste dalla nostra Costituzione, avrebbero l’effetto di introdurre un fattore di normalità, decongestionando e deflazionando un sistema ormai illegale e disumano. Insomma, solo misure straordinarie e «di eccezione» potrebbero ripristinare in una situazione «di eccezione» quel tanto di ordinarietà, in grado di consentire la realizzazione di quelle riforme strutturali (de-penalizzazione e de-carcerizzazione in primo luogo) da tempo attese. Ma immaginare che queste ultime si possano attuare in un corpo così febbricitante e deforme, è pura illusione.
Detto questo, è molto importante il senso principale del ragionamento di Fabozzi: da alcuni decenni siamo vittime, spesso volontarie e volenterose, del berlusconismo: e la crisi forse finale di quest’ultimo ci trascina ancora con sé, ancora subordinandoci culturalmente, condizionando nel profondo la nostra mentalità e molte nostre idee (sulla concezione della giustizia e sulla privazione della libertà, sulle garanzie personali e sul rapporto tra individuo e Stato). Ciò accade per due ragioni essenziali. Innanzitutto, per quell’antico riflesso sinistrico così bene sottolineato da Fabozzi: «Si può, cioè, smettere di essere per l’amnistia e per l’indulto perché adesso fanno comodo a Berlusconi? Sì può, ma solo al prezzo di proseguire nella logica che se una cosa va bene a lui è necessariamente sbagliata, che è poi il trionfo per annessione del berlusconismo». Ma c’è un’altra ragione che può spiegare una certa sudditanza culturale di una certa sinistra, che il dibattito intorno all’indulto del 2006 bene evidenziò. Molti segmenti della sinistra politica, del sindacato e perfino dell’associazionismo più intelligente oscillarono tra un atteggiamento di sospettosa diffidenza e uno di aperta contestazione. Sia chiaro: in qualche caso per alcune buone ragioni. Perché, ad esempio, avrebbero usufruito di quel provvedimento di clemenza i responsabili di reati odiosi come quelli relativi alla mancata sicurezza e alla nocività nei luoghi di lavoro. E per altre meno buone: perché Cesare Previti avrebbe scontato la sua pena non in detenzione domiciliare, ma in affidamento ai servizi sociali. E questo scandalizzava non poco il ferrigno intransigentismo di una certa sinistra che si voleva e che si vuole tosta, molto tosta. Ma, se si scava ancora un po’, si scopre agevolmente che l’ostilità di allora come quella di oggi tradiscono una concezione della giustizia che – quanto più si vuole rigorosa – tanto più risulta sostanzialista e animata da populistiche finalità politiche e politicistiche piuttosto che dal legittimo perseguimento dei reati. Non a caso, nella battaglia contro l’indulto del 2006, si mobilitarono, come un sol uomo – e con argomenti che per carità di patria preferiamo non ricordare -, i Comunisti Italiani di Oliviero Diliberto, l’Italia dei Valori di Antonio Di Pietro, la Lega Nord e Alleanza Nazionale. Tutti vicini, al di là delle apparenze, su questioni come concezione della pena e sua funzione, colpa individuale e responsabilità sociale, autonomia del soggetto e autorità pubblica. Se anche servisse solo a questo, a individuare e a contrastare questo senso comune così tetro e così squisitamente reazionario presente nella sinistra, questa discussione sollecitata dal manifesto sarebbe di grande utilità.