Alle due del pomeriggio della prima domenica di agosto, le pareti perimetrali di St. Katharina, quello che rimane in piedi della chiesa, non offrono praticamente nessun beneficio d’ombra: ma, stoicamente in piedi sotto un sole cocente, alcune centinaia di persone riempiono ugualmente l’ex luogo di culto per ascoltare la musica fra medioriente e occidente, fra world music e jazz, del percussionista iraniano Hadi Alizadeh e della cantante armena Gayane Sureni affiancati da alcuni musicisti tedeschi. Bardentreffen, che festeggia quest’anno la bellezza di quaranta edizioni, ha evidentemente consolidato un pubblico motivato e curioso, decisissimo ad approfittare il più possibile del moltissimo che il festival offre: con un avvio giovedì sera, Bardentreffen è proseguito poi nel fine settimana, culminando in una programmazione dal primo pomeriggio alla sera in contemporanea in otto/nove spazi del centro di Norimberga.

Ma il cartellone ufficiale non è tutto. A due passi da St. Katharina, sull’angolo di un edificio, c’è intanto per esempio un bambinetto biondo che dritto davanti al suo leggio, in mezzo ad un capannello di gente, con la sua pocket trumpet compita diligentemente When The Saints: il centro pullula di musicisti di strada, e a pochi metri l’uno dall’altro, in una divertente cacofonia, puoi imbatterti in un duo fisarmonica/violino che fa l’Ave Maria di Schubert, nel gruppo folk con cornamusa e ghironda, nel ragazzo che ha trasformato la bicicletta in una stravagante batteria semovente, con megafono e pezzi eterodossi come uno scolapasta di plastica, nell’esibizione di capoeira fatta da ragazzini neri, nella bambina di pochi anni seduta per terra con davanti lo spartito che fa pacificamente esercizio col flauto dolce.

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O in un sestetto di musicisti mongoli che si è installato davanti alla vetrina di un grande magazzino, con tre strumenti ad arco a due corde, una sorta di contrabbasso pure a due corde, un liuto a tre, un tamburo, e nessuna amplificazione; quattro su sei cantano, col canto di gola tipico dell’Asia centrale, in un notevole assortimento di voci, con diplofonie e combinazioni veramente suggestive: uno in particolare passa disinvoltamente da suoni tenebrosi, che sembrano uscire dal ventre della terra, ad altri molto aerei, dove lo «sdoppiamento» del canto difonico è particolarmente evidente. Melodie struggenti, a volte quasi western-morriconiane, proposte con molta semplicità, senza nessuna enfatizzazione dell’esotico o dello strano: si ferma ad ascoltarli un sacco di gente. Nato negli anni settanta come manifestazione di musica popolare – come segnala quel richiamo ai bardi dell’intestazione – e di taglio amatoriale, Bardentreffen si è trasformato strada facendo in un festival di world music, che ha voluto però mantenere l’ispirazione originaria con tutta una componente informale. La fisionomia, con bancarelle di cibi e bevande intorno agli spazi dei concerti, birra che scorre a fiumi, e vivacissima animazione nelle strade, è quella di una grande festa che movimenta circa 200mila persone.

In programma un’ottantina di esibizioni, con ampio spazio per i musicisti tedeschi, parecchio neo-folk (dai russi Octava Yo ai nostri Liguriani), diverse care vecchie conoscenze (dagli austriaci Attwenger agli ormai datati Dissidenten con Mohamed Mounir), mentre per quanto riguarda artisti internazionali di richiamo la world music è rappresentata più che altro da prodotti pensati per un intrattenimento di facile presa: da Los de Abajo, Messico, a Chico Trujillo, Cile, dai sudafricani Abavuki, con tante percussioni e un’Africa-cliché, al sodalizio del chitarrista americano Joe Driscoll e del suonatore di kora guineano Sekou Kouyate, un po’ più banali di quello che il loro album Faya poteva lasciar sperare.

Ma rispetto ad una certa diffusa ordinarietà, spiccavano per contrasto delle belle lezioni di stile. Capoverdiana, ma desiderosa di spaziare anche fuori dai modelli musicali dell’arcipelago, Mayra Andrade conquista con un porgere naturale e sottilmente sensuale e un delizioso repertorio che assortisce garbatamente spunti e lingue, fra Capo Verde, Brasile, chanson francese, reggae, pop-rock: apertura cosmopolita di una giovane nata a Cuba, che ha vissuto per via del patrigno diplomatico in Senegal, Angola e Germania, che oltre che al Capo Verde ha mosso i primi passi della sua carriera a Lisbona e Parigi, e che nella capitale francese oggi risiede, ma che non dimentica la sua isola, l’Ilha de Santiago del suo ultimo album Lovely Difficult, che dedica ai capoverdiani presenti Téra Lonji , e che ricorda che sono quaranta edizioni di Bardentreffen, ma è anche il quarantennale dell’indipendenza del suo paese.

 

Alla sua prima volta in Germania, Gisela João è la novità del fado degli ultimi anni, la generazione dopo Mariza: due anni fa il suo terzo album è schizzato in cima alle classifiche portoghesi. Si presenta con un look che è tutto meno che da cantante di fado: capelli castani lunghi e sciolti, vestitino leggero corto corto, a 31 anni sul palco ha l’aria di una graziosa liceale, e le sue presentazioni in inglese dei brani sprizzano una simpatia pazzerella e adolescenziale. Ma è nata in una famiglia modesta, ha tirato su un po’ di fratelli, conosce la vita: in certe parole che usa, nelle canzoni e parlando, i portoghesi riconoscono le sue origini popolari.

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E lo spettacolo non è certo severo ma è consistente: canzoni più intense, piene di pathos, in cui a volte Gisela, in contrasto con la sua immagine sbarazzina, ha come dei soprassalti, degli scatti vocali e gestuali, come se fosse posseduta; altri brani più briosi, un po’ come delle tarantelle. Impeccabili, di grande qualità i tre accompagnatori, una mandola e due chitarre. Gisela ironizza sul fatto che gira e rigira il fado parla d’amore, ma prima di lei non si era mai sentito un fado il cui protagonista è un simpatico extraterrestre che si materializza nel suo giardino e le mostra le foto dei suoi bambini verdi; e con riferimento alla situazione del paese, oggi con tante abitazioni col cartello «vendesi» e tanta gente senza tetto, canta Casa da Mariquinhas, cavallo di battaglia di Amalia Rodrigues, con testo riscritto dalla rapper Capicua, come lei di Porto. Gisela è nata nel nord, vicino a Porto, dove poi è cresciuta: non essendo né di Lisbona né di Coimbra, anche per questo c’è chi in Portogallo non le concede la patente di fadista. Possiamo lasciare questa polemica – fado o non fado – ai portoghesi, con un bel po’ di invidia però per un paese che se non strettamente un genere, è riuscito a rinnovare una forte identità musicale nazionale.

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Peccato che un po’ manchi di malizia affabulatoria invece Çidem Aslan, giovane cantante kurda nata a Istanbul, che oggi vive a Londra: il suo repertorio in turco e in greco a cavallo fra smyrneika e rebetiko è di grande pregio, ma dal vivo rischia di diventare un po’ monocorde, se non ne vengono fatte vivere le dense implicazioni storiche. Pubblico consolidato, si diceva: forse anche troppo, come guardandosi intorno facevano pensare i tanti capelli grigi o bianchi. Con i giovani decisamente in minoranza, forse per un deficit di proposte più specificamente aggiornate e di appeal nei loro confronti. O forse un sintomo di un pubblico della world music che sta invecchiando senza grande ricambio assieme con l’invecchiare del fenomeno stesso della world music?