C’è stato un tempo, tra gli anni cinquanta e settanta, in cui Milano svolgeva una vera egemonia culturale senza avere bisogno dell’effimero festivaliero di saloni, passerelle ed expo, ma solo pesando per la qualità delle idee e l’ingegno che sapeva mettere in circolo tra società e industria, tra le sfere della politica e della cultura. A conferma del dinamismo di quella stagione è indicativo quanto disse Bob Noorda, designer di talento raffinato e schivo come pochi, in una delle sue ultime interviste: «A quel tempo, tra noi girava voce che a Milano si respirasse un’aria molto stimolante, Milano era la città della Triennale, la città dove stava nascendo il grande design». Lo ribadì con la stessa convinzione un altro olandese, il fotografo Arno Hammacher: «Come era Milano quando ci sono arrivato nel 1956? Era, come tutta l’Italia, in un fermento di cui si sentiva l’eco all’estero». Giudizi netti ai quali se ne potrebbero aggiungere altri dello stesso tono.

Soffermiamoci però su Noorda, il personaggio che meglio di ogni altro ha saputo configurare con metodo e creatività l’«immagine di città» di Milano prima che la corsa all’universale estetizzazione del mondo vi giungesse a modificare irreparabilmente ogni cosa. Lo spunto lo offre la recente monografia Bob Noorda Design (24Ore Cultura, pp. 397, euro 35,00), curata da Mario Piazza, che racconta la vita professionale del designer olandese, dai suoi esordi, sullo sfondo di una città alle prese con le radicali trasformazioni urbane del dopoguerra, fino alle soglie del nuovo millennio, quando Milano devia verso i modelli speculativi della densificazione urbana nel centro e dello sprawl nell’hinterland.

Il design, specchio dei processi di modificazione della città e della società, in Noorda trova un’eccellente occasione di verifica; in particolare questa monografia, ideata da lui stesso e uscita postuma, aiuta a comprendere in modo critico l’involuzione culturale di discipline come il design e l’architettura, per le quali la città lombarda deteneva il primato per originalità di ricerca e realizzazioni. Quando vi giunge nel 1954, Noorda è messo subito alla prova: prima il restyling del marchio dei biscotti Pavesini, poi alla Pirelli come art director (freelance). Pragmatismo ed efficienza sono le doti richieste dalla comunicazione aziendale di società pubbliche e private che nell’immagine coordinata, in altre parole nello stile aziendale, individuano il migliore strumento per pubblicizzare, confezionare e vendere il loro brand e non più solo i loro prodotti o servizi.

Noorda è tra i migliori a soddisfare questa domanda mettendo a frutto l’insegnamento avuto dai docenti formati secondo i canoni Bauhaus all’Istituto di Arti Applicate (IvKNO) di Amsterdam: direttori prima Mart Stamm, poi Gerrit Rietveld.

La monografia segue un ordine rigorosamente cronologico: dalla «prima sperimentazione laboratoriale», come ha definito Giovanni Baule gli esordi con i «nuovi alfabeti» per Pirelli, Dreher, Mondadori, Feltrinelli e Metropolitana Milanese, fino alle «variazioni di alta scuola» degli anni duemila con i progetti per la comunicazione editoriale di Tea, Longanesi e Garzanti e la segnaletica visiva per il Castello Sforzesco, Brera e la Galleria Sabauda. Scorrendo le pagine del volume si comprende in modo chiaro il principio che ha ispirato i suoi lavori. «Un buon progetto di design – ha detto Noorda – non deve essere influenzato dalle mode ma deve durare il più possibile». Ciò non vuol dire, come ha fatto notare Giovanni Anceschi in catalogo, che «il più possibile» significhi «in eterno». Non bisogna avere timori di essere out of look, anche se ogni progetto di corporate identity deve essere atemporale affinché – come spesso Noorda ricordava –, questo non sia confuso con la pubblicità. Cinque sono le regole da seguire per non sbagliare: sintesi, semplicità, riproducibilità, memoria e continuità.

Regole essenziali a fondamento di ciò che si chiama basic design e che ha avuto origine nella ricerca formale di Josef Albers e di László Moholy-Nagy, migrata nella didattica bauhausiana (Grundkurs) e da lì, nel dopoguerra, nei corsi della Hochschule für Gestaltung di Ulm di Max Bill e Tomás Maldonado. In Noorda le regole universali del basic design sono applicate con un tale rigore che vari suoi progetti sono diventati dei modelli di riferimento. È il caso ad esempio della segnaletica della metropolitana milanese. Nel 1962, insieme a Franco Albini e Franca Helg, è incaricato dell’arredo delle stazioni: un raro caso di condivisione di soluzioni tra architettura e visual design. La scelta di renderle scure con fascioni opachi e pavimenti in gomma nera permise di nascondere i molti difetti delle superfici in cemento armato, e l’unificazione di corrimani, accessi, illuminazione e segnaletica è la prova che standardizzazione non è sinonimo di impoverimento degli spazi; al contrario, il sistema comunicativo, integrato con percorsi, banchine e aree di sosta, è «cultura e poetica dell’accoglienza» (Baule), che si replicherà alla fine degli anni sessanta nelle metropolitane di New York e di San Paulo. Un vero disastro la decisione dell’azienda municipalizzata milanese di ristrutturare radicalmente qualche anno fa alcune stazioni, contravvenendo a qualsiasi principio estetico e funzionale, illuminandole con pavimenti chiari e ridicole sedute in metallo multicolorato. Inutili le rimostranze di Noorda, scontratosi sia con l’assoluta indifferenza dei poteri pubblici sia con la reticenza di chi avrebbe dovuto tutelare il valore della nostra «modernità», invece bellamente se ne disinteressò.

Nel 1965 Noorda insieme a Ralph Eckerstrom e Massimo Vignelli, costituiscono la società Unimark International con la quale nel ’72 egli ottiene l’incarico – forse il più importante – per la progettazione del sistema visivo di Agip: dal marchio, utilizzando il cane a sei zampe (possibile creazione dell’artista Luigi Broggini), al programma di pittogrammi per le stazioni di servizio, fino al loro lay-out funzionale. Un’esperienza che anche in questo caso è stata replicata per le stazioni della Total e che solo la crisi petrolifera degli anni settanta non permise che continuasse con quelle della Oxy del petroliere americano Hammer.

Oggi il logotipo di Agip, modificato in Eni, non è più quello firmato da Noorda, ma ha subito un restyling che in modo banale ha sostituito i caratteri e il rapporto tra figura-cornice-fondo del marchio.

La crisi di una disciplina è possibile misurarla anche da questi piccoli dettagli; o dalla distanza che ormai ci separa dal manuale di grafica di Armin Hofmann o dalle «nuove tipografie» di Wolfang Wingart, Dan Fredman o Katherine McCoy. Il designer olandese ha insegnato che tutto è modificabile nel tempo, ma occorre capacità non solo per creare, ma soprattutto per rinnovare l’immagine coordinata di un brand. Per i supermercati Coop, ad esempio, egli mise mano al logotipo disegnato da Albe Steiner con lievi modifiche che non ne hanno alterato la qualità iconica, anzi con l’introduzione di fasce colorate ha migliorato la comunicazione per gli utenti e l’esposizione dei prodotti. Noorda è stato definito un «progettista civile» per la dimensione pubblica che la sua azione di designer ha avuto nel misurarsi con lo spazio collettivo: infrastrutture, luoghi del commercio, istituzioni culturali. Lo spazio pubblico sarà ancora per il prossimo futuro il tema più importante sul quale dovranno confrontarsi le politiche di governo delle città: la lezione di rigore e metodo di un grande maestro come Noorda potrà rilevarsi, in questo, di grandissimo aiuto.