Un paese tradizionalmente refrattario all’immigrazione come il Giappone, negli ultimi anni ha visto raddoppiare il numero di lavoratori migranti presenti sul proprio territorio.

E ORA IL CONSERVATORE Shinzo Abe ha intenzione di modificare lo stretto controllo sui visti per attirare altri 500mila stranieri per professioni di medio-basso livello.

Non si tratta di un’integrazione completa da un punto di vista burocratico, ma per i migranti che arrivano nel paese del Sol Levante – soprattutto da Cina, Filippine e Vietnam (ma anche Brasile e Nepal) – sarà possibile rimanere come «regolari» anche 10 anni, durante i quali il diritto di vivere in Giappone potrebbe essere poi ancora modificato.

Non si è trattato di un percorso semplice, ma ha contato e non poco l’esigenza della Abenomics e la crescita di posti di lavoro soprattutto nell’edilizia in vista delle Olimpiadi 2020, insieme a una condizione demografica particolare del Giappone, segnata da picchi di persone anziane e progressivo spopolamento delle campagne, con conseguente necessità di trovare manodopera anche agricola, oltre che nel campo dell’edilizia.

OGGI IN GIAPPONE si contano 1,28 milioni di migranti, un numero raddoppiato rispetto soltanto a cinque anni fa.

La prima ondata è stata quella di studenti e impiegati nei settori dei servizi; ora tocca a edilizia e agricoltura. Il tutto è avvenuto non senza resistenze e dibattiti interni: proprio il caso europeo costituisce l’argomento preferito dei fautori del «Japan first»; si ritiene generalmente che gli immigrati portino disordine, crimini e che vadano infine a ledere i diritti dei giapponesi.

Tutto questo va ad aggiungersi alla riforma del 2017 che attraverso un sistema a punti permetteva agli stranieri di ottenere un visto permanente.

L’AZIONE DI ABE si è resa necessaria anche su impulso delle stesse aziende, che per prime hanno segnalato la necessità di nuova manodopera anche non altamente specializzata. Come riporta l’Asia Nikkei Review «la comunità economica vorrebbe che Abe andasse oltre. Il tasso di disoccupazione si attesta al 2,5%, il livello più basso in 25 anni. Considerata la demografia del Giappone la carenza di manodopera si sta intensificando. La popolazione in età lavorativa della nazione, definita come quella di età compresa tra i 15 ei 64 anni, dovrebbe diminuire di oltre il 40% nei prossimi 50 anni. Al contrario, quelli di 75 anni o più saranno più di un quarto della popolazione».

Per quanto riguarda poi il più generale politica del «Japan First» di Abe, mitigata dai recenti provvedimenti, ma fortemente radicata nella popolazione, il professor Toru Shinoda, esperto di relazioni industriali presso la Waseda University di Tokyo, afferma su The Diplomat che «mentre la proposta di Abe rappresenta un passo nella giusta direzione per assicurare il futuro del paese, il Giappone è stato disinformato sul mito dell’omogeneità etnica giapponese». Shinoda – infatti – afferma che «la storia del Giappone prima della seconda guerra mondiale rivela l’accettazione di massa di circa 1 milione di immigrati e l’invio di 100.000 giapponesi in tutto il mondo».

SECONDO SHINODA, dunque, non ci sarebbe «nulla di intrinseco nella cultura giapponese che impedisca l’accettazione degli immigrati», benché il disfacimento del mito di una società omogenea «richiederà diversi passaggi».

COME RIPORTATO anche da Reuters, Abe – prima di aprire all’immigrazione – ha provato ad affrontare i problemi economici attraverso riforme interne come l’incoraggiamento per donne e pensionati a tornare a lavorare.

L’iniziativa «Womenomics» è stata svelata nel 2015 con un ambizioso obiettivo iniziale: avere almeno il 30% dell’occupazione femminile in posizione di leadership entro il 2020, obiettivo poi abbassato al 15% entro il 2030.

Il professor Shinoda – a questo proposito – afferma che «invitare lavoratori poco qualificati in condizioni rigide e temporanee renderà il Giappone una meta di lavoro meno attraente. Con l’ascesa della Cina e del sudest asiatico, il Giappone deve rendersi conto della dura realtà: il paese ha bisogno di manodopera straniera più di quanto il fabbisogno di manodopera straniera abbia bisogno del Giappone. È una questione di sopravvivenza».