Hanno dormito ospiti delle parrocchie fatte aprire dal patriarca di Venezia, Francesco Moraglia, i 240 profughi che si erano messi in marcia, direzione Venezia, con l’intenzione di andare a sollecitare il prefetto riguardo la loro situazione. Sono gli ospiti dell’hub di Cona, nota alle cronache per vicende niente affatto edificanti.

Ne incontro un quarantacinque nella canonica di Gambarare, messa a disposizione da Don Luigi, prete di questa piccola frazione di Mira, comune di Venezia. Mostrano le fotografie del loro compagno morto mercoledì sera, Salif Traore, che in bicicletta stava cercando di raggiungere quello che di fatto era un vero e proprio corteo ma è stato investito da una monovolume. «Non è mica la prima volta che muore qualcuno di noi di Cona», dice proprio così un giovane nigeriano. E ricorda il caso della giovane Sandrine, tragedia che scosse l’intera comunità di persone costrette nella ex base militare dell’aeronautica. Un altro si avvicina e mostra un po’ di immagini che ha girato con il suo telefonino: «Guarda dove ho dormito per undici mesi.

Secondo te è possibile? D’estate si moriva di caldo, si soffocava. D’inverno si muore di freddo. Non vogliamo più vivere così», dice un 31enne della Costa d’Avorio, «perché questa non è vita».

Un altro, di qualche anno più giovane, si unisce alla conversazione: «Al prefetto vorrei chiedere cosa ne pensa del fatto che noi siamo costretti a vivere in questo modo. Io sono un migrante, sono un uomo che sta cercando solo di vivere in una condizione umana. Come dovrebbe essere per tutte le persone del mondo. Il capo della chiesa di Venezia questo lo ha capito e grazie a lui la scorsa notte non l’abbiamo passata all’aperto.
Perché il prefetto non ha lo stesso pensiero? Non siamo venuti qui per vivere in accampamenti. Siamo in Europa per lavorare, per poterci costruire una vita. Perché invece c’è chi ci vuole affossare?».

«Mi dispiace non potermi esprimere nella tua lingua e parlare in francese», mi dice, «ma in quasi un anno a Cona, sai quante lezioni di italiano ho potuto fare? Si contano sulle dita di una mano. Ci sono cinque o sei insegnanti per 1.200 persone. Come si può pensare che possano seguirci tutti?». Un ragazzo decisamente più giovane, francofono anche lui, quasi lo interrompe pur di dire la sua: «Io a Cona cercavo solo di dormire il più possibile perché ho capito subito che avrei dovuto starci molto tempo e volevo quindi passasse tutto in fretta. Ma è lunga far trascorrere velocemente, mesi interi».

Sono da poco passate le tredici e alcuni volontari servono del cibo. Sono giovani di qui, sedici-diciassette anni al massimo. Insieme a loro alcuni anziani che sono venuti a supportare Don Luigi, che non è esattamente un ragazzino, discutono su quanto potrebbe accadere nel pomeriggio. Se davvero qualcuno li verrà a prendere o no. Dovrà arrivare sera prima che un pullman li preleverà. Il pomeriggio, oltre aver dato una mano a pulire e liberato la strada dalle foglie che il vento di questi giorni ha radunato qua e là, attendono la loro sorte guardando lo smartphone. Molti però hanno voglia di parlare. Ognuno ha una storia da raccontare, basta solo rimanere ad ascoltare. Mi mostrano altre fotografie che hanno scattato durante la loro permanenza a Cona, che loro definiscono senza mezzi termini «un campo profughi».

Parlando gli racconto che tra i disperati della galleria Bombi a Gorizia, tra i neo arrivati che da giorni sostano al gelo senza acqua e servizi igienici, c’era chi, nel sentire che dei cinquanta trasferiti a inizio settimana alcuni sarebbero potuti finire a Cona, provava quasi un sentimento di invidia. La reazione è una risata generale, così chiedono di vedere le immagini della galleria. Tra i vari commenti attira l’attenzione quello di un giovane che fino a quel momento non aveva praticamente aperto bocca: «passare da un inferno a un altro inferno, questo è il nostro destino?».

Dei 240 che hanno abbandonato la sovraffollata hub di Cona, con le sue più di mille e cento presenze, sessanta sono stati collocati in strutture in provincia di Vicenza, il resto a gruppi di trenta in strutture nelle altre sei provincie venete.
I primi ad essere trasferiti sono stati quelli ospiti della chiesa di San Nicolò a Mira. Poco distante il municipio dove campeggia lo striscione che chiede verità e giustizia per Giulio Regeni, sostano tre mezzi blindati della polizia per assicurare che la protesta sia veramente finita. Sembrerebbe di sì, per adesso.