Il problema del sussidio di povertà detto impropriamente «reddito di cittadinanza» non è al momento se, da chi, e come il ministro del lavoro e dello sviluppo Luigi Di Maio abbia ordinato di stampare «5 o 6 milioni» di tessere povertà, tra l’altro già sperimentate sotto altri governi, ma il fatto che queste «carte di credito» servano a profilare i beneficiari, a controllarne i comportamenti di acquisto, obbligati come saranno a spendere la differenza tra il tetto di 780 euro e il loro reddito Isee ogni mese, presso esercizi commerciali autarchici.

A differenza della maggioranza delle critiche, di ispirazione neoliberista, a una misura neoliberista di work to welfare (beneficio decrescente in cambio di lavoro gratuito e formazione obbligatoria, workfare), il problema non è solo tecnico: se le risorse esistono (ci sono); né solo quando partirà (ad aprile 2019, giusto un mese prima delle elezioni europee); come sarà distribuito e da chi.

Intendiamoci, sono problemi enormi a cui sono prospettate soluzioni incredibili. In mancanza di un testo di legge, per non parlare delle norme attuative – Di Maio le ha rinviate a dopo la legge di bilancio, tra Natale e Capodanno – il governo annuncia una riforma epocale dei centri per l’impiego da fare in tre mesi, mentre sarebbe necessario un quinquennio, migliaia di assunzioni, formazione del nuovo personale per andare a regime.
Anche in presenza di un colpo di teatro, sarebbe tutta da dimostrare la capacità di produrre 18 milioni di offerte di lavoro (tre per ciascuno dei 6 milioni di possibili beneficiari) in un paese dove oggi solo il 2% di tali offerte passano per i centri per l’impiego.

Che questo avvenga in 90 giorni, o in 5 anni, al momento poco conta, finché restiamo agli annunci a mezzo stampa. Se qualcuno presume che, presto o tardi, le anomalie strutturali dell’incontro tra domanda e offerta di lavoro (è il capitalismo, non il fantomatico «libero mercato») saranno risolte, con questo o altri sistemi, si illude. Questa è la premessa per consolidare una società del precariato a tempo indeterminato, dove il lavoro è l’attività di chi cerca un altro lavoro precario. E il lavoratore è un capitale umano occupabile e in transizione tra occupazione e disoccupazione.

Il problema oggi è politico e riguarda l’autonomia delle persone, la loro libertà di percepirsi, e vivere, come soggetti capaci di autodeterminazione. Si dice che il reddito spingerà i «Neet» a non fare nulla e avere i soldi dallo Stato. È falso: i populisti faranno la guerra a «chi sta sul divano». Ridurranno inoltre una misura destinata all’autonomia delle persone a un incentivo per le imprese a cui andranno tre mensilità, sempre che la Lega non imponga a M5S il versamento dell’intero sussidio alle aziende e alle burocrazie.

Chi parla invece la lingua dell’autonomia è il movimento femminista Non una di meno. Nel «Piano femminista contro la violenza maschile sulle donne», frutto di un’elaborazione collettiva, c’è l’antidoto al workfare di governo e a quello sostenuto dall’«opposizione». Si chiama «reddito di autodeterminazione», «incondizionato e universale», «slegato dalla prestazione lavorativa, dalla cittadinanza e dalle condizioni di soggiorno». Questa idea, ricorrente anche nelle elaborazioni dell’associazione per il «reddito di base» Bin-Italia, è considerata uno strumento per liberare le donne dallo stato di «vittimità» e dipendenza; e tutti dai ricatti dello sfruttamento; del lavoro purché sia; della precarietà. L’opposto del paternalismo di chi sospetta i poveri di nullafacenza e vuole premiarli o punirli.

Non una di Meno propone un «salario minimo orario europeo» per contrastare i bassi salari; la differenza di retribuzione tra uomini e donne; il dumping salariale. Prospettiva assente sulla scena della politica, pur avendo fatto capolino nel «contratto di governo».

Il reddito e il salario minimo possono diventare un terreno di conflitto per la libertà delle persone, non tra chi auspica l’adozione di un modello migliore per disciplinare la vita dei poveri.