Ma che olio consumiamo? E come si riconosce un buon olio di oliva? La scelta dell’olio è una operazione complessa. In Italia ne consumiamo 12 litri l’anno pro-capite (7,5 litri di extravergine). Le tre tipologie di olio in commercio (di oliva, vergine, extravergine) si differenziano per caratteristiche chimiche e organolettiche ben definite. Ma la maggior parte degli oli che ci vengono proposti sono il risultato di una miscela costituita da prodotti di diversa provenienza.

CI DOBBIAMO SOLAMENTE ACCONTENTARE di sapere se è 100% italiano o se si tratta di una miscela di oli comunitari e/o extracomunitari. In nessun caso siamo in grado di conoscere l’esatta provenienza e in che rapporto si trovano i diversi componenti della miscela. Solo l’esame del DNA ci consentirebbe di individuare le cultivar da cui si è ottenuto l’olio e, quindi, la sua origine. Questa attività di miscelazione (blending) è consentita dalla legislazione, ma da anni viene messa in discussione dalle associazioni dei consumatori. Ci si chiede se la pratica della miscelazione sia compatibile con la messa in commercio di un olio extravergine. Questo tipo di olio si può ottenere solo attraverso un procedimento meccanico e deve avere specifiche caratteristiche organolettiche. Ma se oli di categorie e qualità diverse vengono mescolati per arrivare ad avere una miscela che rientri nei parametri chimici dell’extra vergine, non siamo forse di fronte a un comportamento di tipo ingannevole?

Questo interrogativo non trova risposte. Le miscele rappresentano una grave forma di disorientamento dei consumatori e determinano un abbassamento della qualità dell’olio in commercio. La grande industria olearia miscela e imbottiglia per uniformare le caratteristiche degli oli. Si vuole ottenere un prodotto indifferenziato venduto con marchi diversi. L’olio come commodity, come è già avvenuto per grano, riso, pomodoro, come prodotto di qualità indifferenziata e con un prezzo stabilito dal mercato. E in questa logica non è più importante sapere da dove arriva, quali sono i territori di riferimento, la fatica di chi ha accudito le piante di ulivo.

LE INNOVAZIONI LEGISLATIVE, INTRODOTTE a partire dal 2013, hanno cercato di individuare strumenti più efficaci per determinare la qualità degli oli, sia attraverso analisi chimico-fisiche che sensoriali. Si è introdotto il Panel test, una analisi organolettica obbligatoria in Europa, costituita da prove di assaggio e olfattive. Il test, effettuato da esperti qualificati e selezionati, serve a valutare se un olio, nel rispetto dei parametri chimici, può essere venduto come extravergine. Le industrie, soprattutto quelle spagnole, contestano il Panel test, affermando che bisogna affidarsi solamente ai parametri chimici. Il problema è che i parametri chimici possono essere facilmente modificati e i controlli organolettici sono fondamentali per l’olio. Questo prezioso alimento non può essere lasciato in mano agli alchimisti delle industrie olearie.

L’ITALIA E’ IL CROCEVIA DEL COMMERCIO di olio e i marchi italiani vengono utilizzati per esportare le produzioni di tutto il Mediterraneo. Le industrie hanno più convenienza a miscelare oli di diversa provenienza e poi commercializzarli come extravergini. Sono vere e proprie alchimie in cui oli di qualità inferiore vengono miscelati con oli di qualità superiore per migliorare la qualità complessiva e puntare all’extravergine. In questo modo l’extravergine arriva a costare anche 4-5 euro al litro, poco più dell’olio di oliva. La grande distribuzione, a sua volta, introduce propri marchi e fa abbassare ulteriormente il prezzo. Solo gli oli DOP garantiscono una qualità migliore e sono gli unici a indicare l’esatta zona di provenienza.

Attualmente sono 46 gli oli italiani che hanno questo riconoscimento da parte dell’Unione Europea, ma la loro quota di mercato è del 5% in quanto il loro costo è tre volte superiore. E alla fine il consumatore sceglie l’olio più economico e più pubblicizzato. Il 90% degli oli in commercio sono miscugli di oli comunitari con oli provenienti da paesi extracomunitari. La quota di mercato dell’olio 100% italiano è solo del 10%. Il made in Italy è spendibile nel settore alimentare e i marchi italiani fanno gola. Nel 2008 il gruppo spagnolo-britannico Deolio ha acquistato Bertolli, Carapelli, Sasso. Nel 2014 i cinesi di Bright Food hanno acquistato Sagra e Berio. La Deolio insieme alla spagnola Dcoop e alla portoghese Sovena controllano il 60% del mercato mondiale attraverso l’acquisizione di numerosi marchi di vari paesi.

LA DOMANDA DEL MERCATO ESTERO è superiore alla produzione italiana e allora si importa da Spagna, Grecia, Tunisia, Marocco, si miscela con un 10-15% di olio italiano, si imbottiglia e si esporta con i marchi italiani. La Toscana è particolarmente «esportabile». Anche se la regione produce solo il 3% dell’olio italiano, i marchi presenti sul suo territorio sono un terzo di quelli italiani. Il mercato dell’olio, pur rappresentando solo l’1,6% degli oli vegetali, è in continua espansione, soprattutto dopo gli allarmi lanciati per l’olio di palma. La «spremuta di olive», il più pregiato condimento che abbiamo a disposizione, è anche il prodotto alimentare più soggetto a frodi e sofisticazioni. Secondo gli organismi di controllo le infrazioni più frequenti interessano «oli a composizione anomala derivanti dall’applicazione di trattamenti non consentiti». Una indagine di Altroconsumo, che ha fatto analizzare 30 oli extravergini tra i più acquistati, ha constatato che 8 di questi non potevano essere classificati come extravergini.

NEL 2014 IL NEW YORK TIMES RACCONTO’ la truffa dell’olio «toscano» di provenienza greca e tunisina. Nel 2015 sette importanti marchi (Carapelli, Bertolli, Sasso, Santa Sabina, Coricelli, Primadonna, Antica Badia) furono accusati di frode in commercio. I NAS dimostrarono che era stato messo in vendita un olio vergine indicato come extravergine. Un tempo le frodi erano rappresentate dalle miscele con oli di semi. Oggi il sistema è più sofisticato. Oli non conformi vengono sottoposti a processi di arricchimento e manipolazioni «diventano»extravergini. Sono ben 9 le autorità che in Italia vigilano sull’olio, ma le difficoltà sono notevoli per riuscire a garantire un efficace sistema di controllo. E si fa sempre più frequente la «denominazione d’origine inventata».