«Crisi della critica» è una delle formule più fortunate mai prodotte dalla critica letteraria. Basta sillabarla per rimanerne affascinati: cri-si-del-la-cri-ti-ca. Figura etimologica (crisi e critica, si sa, hanno la stessa origine) e ridondanza sonora contribuiscono a rendere l’espressione memorabile, come una formula appunto. E, in quanto tale, applicabile e ripetibile in diversi contesti. Impossibile non riconoscerne l’efficacia, difficile resistere alla tentazione di trasformare quell’efficacia in credito. Infatti, in Italia, il tema del tramonto accompagna ogni dibattito e bilancio sulla critica letteraria. In alcuni casi, si tratta di riflessioni che contribuiscono a mettere in luce questioni e prospettive essenziali; in altri, nasce il sospetto che il pessimismo o lo scetticismo sulla salute della disciplina risentano anche della condizione personale di chi proclama lo stato di crisi. Terminato il ruolo, cioè, sembra a volte perdere forza anche la funzione.

In più, la postura novecentesca dell’intellettuale produce un riflesso condizionato difficile da controllare: cioè l’estensione su un piano generale di un sentimento particolare, la promozione dell’idiosincrasia a teoria. Sarà anche per questo, forse, che oggi pare più in crisi la teoria letteraria vera e propria che non la critica. Ed è un male, perché la buona teoria, anche quando non viene esibita, dà struttura e consistenza alla riflessione critica. Questo, almeno, mi sembra valere per l’Italia. Non sono sicuro che accada lo stesso in altri paesi culturalmente confrontabili con il nostro. In Francia, ad esempio, escono più di frequente volumi che mostrano – e a volte, appunto, esibiscono – una struttura teorica robusta. Questo dipende in primo luogo dalla forma mentis e dai protocolli della cultura francese; ma, in secondo luogo, si lega al fatto che le case editrici come Seuil, Gallimard, Classiques Garnier, che hanno fatto la storia e la fortuna della materia, continuano a pubblicare saggi critico-teorici.

In Italia non tutti gli editori che hanno alle spalle una tradizione paragonabile dedicano ancora alla teoria (e alla critica) letteraria la stessa attenzione. (Ma il panorama è molto vario e non mancano, anche da noi, case editrici che investono nello studio della letteratura; forse, oggi, le meno disponibili a farlo sono proprio quelle storiche: questa, mi pare, è una differenza significativa rispetto ad altri paesi).
Editoria, distribuzione, pubblico: certo, il regresso della critica in termini di peso e rilievo è fuori di dubbio. Finora ho cercato di dire che la crisi della critica è anche un luogo comune, ma ovviamente non è solo quello.

’altra parte, gli stereotipi non sono necessariamente falsi e le «narrazioni» non sono tutte mistificatorie. La questione esiste e richiede spiegazioni e interpretazioni sociologiche, economiche, politiche, che non potrei né vorrei affrontare qui – anche perché altri, dalle colonne di questo giornale, ne hanno già parlato con competenza e lucidità. Tralascio perciò i commenti sulle cause estrinseche che possono aver contribuito a indebolire prestigio e funzione della critica letteraria; preferisco suggerire alcune prospettive intrinseche, cioè relative al fare critica, al concreto operare del critico. Non saranno vere e proprie soluzioni, ma indicazioni utili se non altro a non assuefarsi alla crisi, a reagire allo stereotipo. Ricorro alla forma un po’ autoritaria dell’elenco, sia per ragioni di spazio, sia per questioni argomentative: la brevità apodittica sollecita spesso integrazioni e repliche, provoca il dialogo.

Ecco dunque alcuni punti che mi stanno a cuore:
1) Non rimpiangere (troppo) il passato. La critica non ha mai retto le sorti del mondo e il sentimento della crisi non le era estraneo neanche prima. Per certi aspetti, la situazione è anzi migliore di prima. Per esempio, oggi il mondo della critica è più aperto sul piano del genere di quanto non lo fosse anche solo una generazione fa; ed è più democratico nell’accesso agli spazi da cui prendere la parola. La rete ha svolto un ruolo molto importante, generando una critica diffusa; l’altra faccia della medaglia è la crisi delle competenze: se quasi tutti sono critici, quasi nessuno lo è (ma, come primo rimedio, si veda il punto 3).
2) Guardare anche oltre i confini della cultura nazionale (che spesso si frammenta in varie, singole culture locali: l’ambiente letterario romano, quello milanese, e via discorrendo). Potremo scoprire che la crisi, pur avvertita anche in altri Paesi e culture, sollecita altrove reazioni diverse e vitali.

3) Studiare, conoscere, aggiornarsi (vedi punto 2), certo non per approvare incondizionatamente il nuovo ma anche per criticare, selezionare, scartare a ragion veduta. Occorre, cioè, rinnovare i propri riferimenti, anche quelli polemici.
4) Non scrivere o parlare solo per altri critici o per lettori culturalmente (e ideologicamente) omogenei. Non si parla a tutti, come insegnava Fortini (che apparteneva però a un mondo e a una generazione ormai lontani). Ma si parla comunque ad altri. Non si può pensare, cioè, di rivolgersi solo a sé stessi o a una cerchia di persone che condividono identici riferimenti e coordinate (si veda, al riguardo, anche il punto 5).
5) Farsi capire. Sempre. O almeno cercare di farlo (vedi punto 4). È la prima responsabilità e la prima fatica del critico (perché chiarificare non significa banalizzare).

6) Considerare quello del critico letterario un lavoro che richiede competenza ed esercizio, oltre che cultura e curiosità. Ci sono stati e ci sono buoni (e a volte grandi) critici tra i filologi e tra i linguisti, tra gli scrittori e tra i poeti, tra i giornalisti e tra gli editori, tra gli insegnanti e tra i filosofi, tra i giuristi, tra gli scienziati ecc. Ma nessuno di questi mestieri conferisce di per sé a chi lo pratica la patente di critico. La critica letteraria, anche quando si occupa di testi e autori contemporanei, richiede studio, consapevolezza di metodo, scelta di valori, ampiezza di letture. I primi ad averne consapevolezza devono essere i critici, per dare e far dare valore a ciò che studiano, pensano e scrivono.
7) Smettere di separare la critica cosiddetta militante dalla critica cosiddetta accademica e, soprattutto, resistere alla tentazione di usare l’aggettivo «accademico» in accezione negativa, in senso deteriore. (Dove, se non all’università, hanno imparato molto di ciò che sanno alcuni tra i migliori critici italiani, ieri come oggi? Dove lavora, o ha lavorato, a vario titolo una buona parte di loro?).

8) Affrontare il dialogo con altre discipline, per misurare e rivendicare il ruolo della critica letteraria (e della letteratura) nell’ambito dei saperi contemporanei. Capire e mostrare ciò che la critica – con le specifiche risorse e attraverso le forme e i codici della propria privilegiata materia: la letteratura – può dire e insegnare anche a chi pratica altri campi: umanistici, sociali o scientifici.