«Mi chiamo Ommulbanin, vivo in Afghanistan, sono nata nel 2000 e ho lavorato duro per aiutare la mia famiglia e studiare». Ventuno anni, un libro tra le braccia, Ommulbanin Adeeb percorre una delle stradine che portano sulla via principale di Kart-e-Char, quartiere a sud-ovest del centro, nell’area universitaria. Passeggia con due amiche.

È l’unica disposta a commentare l’annuncio fatto tre giorni fa al ministero per la Promozione della virtù e la prevenzione del vizio: velo integrale obbligatorio per tutte le donne, solo gli occhi liberi. Consigliato il chadori (burqa per noi, ndr) che i Talebani reinventano come «abito tradizionale».

«NO, NON CI STO. Voglio continuare a studiare ma non alle loro condizioni». Ommulbanin elenca gli studi fatti negli istituti privati, le attività di volontariato, l’insegnamento ai più piccoli. Dice che non si coprirà mai il volto. Piuttosto «resto a casa, aiuto la famiglia, insegno ai bambini». Parla di «situazione catastrofica».

La sua amica è stata fermata da un uomo che a brutto muso le ha chiesto conto dell’abbigliamento. Non conforme. L’Islam è un pretesto, dice convinta lei.

«L’Islam non dice questo, di coprirti la faccia. Lo interpretano a modo loro per costruire un mondo nero: noi vogliamo il cielo blu». Si dice fortunata ad avere padre e fratello – quelli che per i Talebani dovrebbero fare da controllori e censori, per evitare multe, licenziamenti, carcere – dalla sua parte. Si augura «una vittoria» ma non esclude di dover restare a casa. È l’alternativa che auspicano i Talebani.

QUI A KABUL, in quattro diversi quartieri – Shar-e-now, Kart-e-Char, Barestan e parte dell’area del bazar centrale – in questi primissimi giorni non ci sono stati cambiamenti evidenti nei modi di vestire. «Per ora no, ma i Talebani fanno sul serio. Si dice che abbiamo assunto migliaia di funzionari al ministero per la Promozione della virtù», dice Ahmed (nome di fantasia), esperto nel settore dell’educazione.

Lungo la strada tra il quartiere di Barestan e quello di Kart-e-Char, davanti al Silo, l’enorme impianto di produzione alimentare pomposamente riattivato dai Talebani dopo decenni di chiusura, c’è uno dei tanti posti di blocco di Kabul. I soldati dell’Emirato controllano molto più il territorio rispetto a soli sei mesi fa, a novembre.

Qui al checkpoint davanti al Silo, i militanti sono in camice bianco e lunga barba nera. Sembrano medici, ma hanno il compito di monitorare la «sanità islamica» dei residenti. Brutti segnali di controllo e repressione, imposizioni ed editti, contrazione progressiva degli spazi, specie per le donne.

UNO TRA I NOSTRI interlocutori dice che gli effetti dell’editto arriveranno con il tempo: i Talebani avrebbero mobilitato risorse e organizzazione per far sì che venga applicato. Per un altro, serve ad alzare la posta in gioco con Washington e Bruxelles, in un cinico calcolo sulla pelle delle donne: più diritti negati, maggiori spazi di negoziazione per «restituirli».

Un altro ancora è convinto che sia frutto delle dinamiche interne, a nove mesi dalla conquista del potere a Kabul e di transizione da gruppo di guerriglia a gruppo di potere istituzionale. Serve ad accontentare gli elementi più conservatori, perlomeno sulla carta. In alcune aree rurali, l’editto è già pratica corrente.

E tra i Talebani ci sarebbe chi sa che non si potrà applicare in città come Kabul, Mazar-e-Sharif, Herat, Kunduz. Se non a costo di alienarsi completamente una popolazione stretta tra repressione interna, sanzioni esterne, crisi umanitaria ed economica e segnali preoccupanti di nuovi conflitti, nuovi fronti militari. Nuove vittime civili.

«IO CONTINUO A USCIRE, ma quell’annuncio mi ha fatto impressione». Sandali bianchi con suola alta, pantaloni jeans sotto un lungo abito verde, sopracciglia disegnate e un trucco accurato, Sufiya Izwedar interrompe la lettura di Le tre figlie di Eva, romanzo della scrittrice turca Elif Shafak. Tre donne che nella Turchia re-islamizzata cercano la propria autonomia: «la Peccatrice, la Credente e la Dubbiosa».

Siamo di nuovo a Kart-e-Char, zona un tempo vivace, di caffè frequentati da studenti e studentesse. Diversi hanno chiuso. In giro, meno ragazze. «Molte mie amiche hanno lasciato l’Afghanistan», nota Sufiya, 24 anni. Frequenta un master in Management ma è scettica sulla possibilità di trovare lavoro, poi. Per ora resta qui, ma se dovesse finalmente arrivare il passaporto, ci proverebbe anche lei.

L’EDITTO DEI TALEBANI non le va giù. «È assurdo. Il tipo, la forma, il colore dell’abito dobbiamo sceglierlo noi, non loro», sostiene. Uscendo di casa, oggi non si è posta il problema. In futuro vedrà: «Vorrei evitarlo, ma se dovessi essere costretta lo userei solo nei tragitti, poi lo toglierei subito».

Non ha intenzione di protestare, come invece hanno fatto alcune ragazze, qui a Kabul. Preferisce vedere cosa accadrà. Per uno dei suoi amici abituali del caffè, contro le politiche dei Talebani «c’è poco o nulla da fare». Un altro, Abdullah (nome di fantasia), non è d’accordo: «Ci sono tre opzioni: andarcene, anche se è sempre più costoso e difficile; mobilitarci, ma i rischi sono alti; o unirci alla resistenza».

Si riferisce al «Fronte di resistenza nazionale per l’Afghanistan», guidato dal figlio del comandante Massud e da uomini della vecchia Repubblica in parte attivi in Tajikistan. Quattro giorni fa il Fronte ha lanciato la più importante offensiva militare dal settembre 2021 in alcune province settentrionali.

«L’alba della libertà è più vicina», rivendicano da una parte, celebrando distretti riconquistati. «Nessuno scontro», nega Zabiullah Mujahed per i Talebani. Che bussano alla porta della nostra stanza, ieri, verso le 21.15. Prima le voci nel corridoio, poi l’ingresso muscolare.

SONO IN CINQUE, giovani e vecchi. Armati, si accomodano da sé. «Chi sei? Perché stai qui?». I documenti sono in regola. «Siamo i servizi, siamo qui per la tua sicurezza. Domani ne parliamo meglio».