Lo statuto del lavoro autonomo professionale annunciato dal governo Renzi punta ad ampliare le coperture su maternità, pagamenti in ritardo, spese per formazione e le tutele per le malattie gravi per chi lavora con la partita Iva. La bozza redatta dal giuslavorista bocconiano Maurizio Del Conte conferma le dichiarazioni rilasciate in un incontro con le associazioni dei freelance l’11 ottobre e sarà accompagnato da una riforma del regime fiscale agevolato per gli autonomi, un rimedio al pasticcio creato dal governo l’anno scorso. Dovrebbe essere sospeso l’aumento dei contributi Inps al 27,72% e si parla di un’equiparazione dei freelance e parasubordinati della gestione separata agli altri autonomi, commercianti e artigiani, con l’aliquota al 24%. In attesa che la discussione sulla legge di stabilità confermi gli annunci, si è aperta la discussione su uno statuto che promette di essere la prima misura normativa decisa in Italia da molto tempo. I lavoratori autonomi possono conquistare un avamposto utile per chi non è autonomo, ma lavora precariamente.

Questa potrebbe essere un’occasione per realizzare la «coalizione» di cui parla Sergio Bologna, da tempo impegnato in questa battaglia: una tutela conquistata dagli autonomi potrebbe essere estesa anche ai lavoratori indipendenti. Per realizzare una simile impresa non bisogna intendere lo statuto come una misura solo per una categoria. Non c’è solo uno statuto, ma più statuti del lavoro autonomo. Nella stessa persona, oggi, coabitano più statuti lavorativi, spesso tra loro opposti. I freelance sono l’espressione più originale di questo pluralismo delle identità che si riflette nelle loro rivendicazioni di equità e autonomia o nelle pratiche di chi coltiva l’aspirazione al lavoro condiviso e al mutualismo: i makers, i coworkers e il sindacalismo delle partite iva e dei precari. Ben venga dunque il riconoscimento di uno statuto che abbandoni la difficile distinzione tra «vere» e «false» partite iva, tra autonomi «ordinisti» e «non ordinisti». I grafici, gli attori o gli archeologi vivono nella stessa condizione degli avvocati, dei giornalisti o degli architetti under 45 con redditi da 545 euro netti al mese, secondo una ricerca dell’associazione XX maggio nel 2014.

In questa cornice bisogna evitare un’altra opposizione, quella tra chi lavora per se stesso e chi lavora per conto terzi, tra freelance «puro» e professionista monocommittente (o quasi) per una casa editrice, uno studio professionale, una cooperativa. Nel corso della vita lo stesso individuo, per necessità o scelta, può trovarsi nell’uno o nell’altro statuto, oppure può cumulare entrambi. Senza contare che nel più ampio lavoro indipendente una persona può essere disoccupata e svolgere altre attività. Più che tracciare confini, conviene valorizzare la porosità dei confini oltre le classiche distinzioni tra occupazione e disoccupazione, precarietà e autonomia. In questa ottica vanno lette le osservazioni critiche avanzate dall’associazione dei freelance Acta. Allo stato attuale, la bozza sulla quale il governo sta lavorando riconosce solo una parte delle rivendicazioni del movimento, quelle sulla tutela in caso di malattie gravi e quella sulla maternità/paternità, ma non menziona le altre misure essenziali come l’equo compenso contro la violenta svalutazione del lavoro indipendente e l’equa pensione per lavoratori che difficilmente riusciranno ad averne una dignitosa. Quest’ultimo problema interessa sia gli iscritti alla gestione separata dell’Inps, sia i professionisti iscritti alle casse previdenziali degli ordini, gravati da contributi altissimi che non garantiscono prestazioni all’altezza e incidono su redditi drammaticamente bassi per la crisi.

Nella bozza di statuto non sono citati i diritti sindacali o gli strumenti di azione collettiva per potenziare la figura del lavoro autonomo e la sua presenza nella società. Tutti elementi valorizzati nei movimenti dei freelance nell’ultimo decennio. Si riscontra anche l’assenza di una tutela per il reddito minimo o per il sussidio universale di disoccupazione. Se si vuole riconoscere gli autonomi come lavoratori, e non come imprese individuali, allora bisogna pensare che possono finire disoccupati o non raggiungere un livello dignitoso di reddito. Queste non sono materie di uno statuto, ma di una riforma universalistica del welfare. Una soluzione prospettata dalla «coalizione 27 febbraio» che raccoglie una ventina di sigle del lavoro autonomo e indipendente in Italia e promuoverà a Roma un’iniziativa sullo statuto il 14 e 15 novembre nell’atelier Esc. Misure che il governo Renzi non intende applicare, preferendo un sussidio contro la povertà assoluta assai ristretto. È auspicabile che la discussione sullo statuto coinvolga tutte le associazioni e i movimenti attivi a partire dalla presentazione in un collegato alla legge stabilità fino alla sua definitiva approvazione a metà dell’anno prossimo. Per il momento riguarderà 1,2 milioni autonomi degli ordini professionali, 800 mila che versano i contributi all’Inps. Se ben articolato lo statuto potrebbe interessare i lavoratori intermittenti, precari, a termine, prestatori d’opera occasionali, il vasto mondo del quinto stato.

I freelance stanno cambiando la cultura del lavoro in Italia. La loro idea è semplice e molto ambiziosa: il singolo lavoratore dovrebbe mantenere i suoi diritti universali anche quando cambia attività professionale o posto di lavoro. In un certo senso è il contrario del Jobs Act che condiziona i diritti ai voleri dell’impresa. Avere spinto il governo Renzi a riconoscere la necessità di uno statuto è un primo passo. Ora bisogna trovare la strada per affermare un nucleo di diritti sociali fondamentali per la tutela degli indipendenti intrappolati nel lavoro povero o in quello stabilmente precario.