«La verità è che non sono chi pensiate io sia. La maggior parte delle persone mi conosce come Mo Farah, ma non è il mio nome o non è la realtà La vera storia è che sono nato in Somaliland, nel nord della Somalia, come Hussein Abdi Kahin. Nonostante quello che ho detto in passato, i miei genitori non hanno mai vissuto nel Regno Unito».

A PARLARE è (era) il non ancora quarantenne fondista Mo(hamed) Muktar Jama Farah, tra le massime personalità sportive britanniche di tutti i tempi, britannico vincitore di una pletora di medaglie (quattro ori nei 5 e nei 10mila metri tanto per restare alle olimpiadi, Londra 2102 e Rio 2016). Nel 1992, all’età di nove anni, Mohamed/Hussein arriva in Gran Bretagna accompagnato da una sconosciuta, viene costretto ad assumere l’identità di un bambino di nome Mohamed Farah e a lavorare come domestico in una famiglia nel quartiere di Hounslow, uno dei cinque posti peggiori nei quali vivere nel paese. La rivelazione è contenuta in «The Real Mo Farah», un documentario della Bbc in onda oggi.

FARAH VOLEVA raccontare la sua storia, a tutti i costi. Dopo tanti anni di silenzio, «per non dover mentire ai miei figli», ha infine deciso di togliersi questo peso immane. Durante l’enorme e martellante esposizione mediatica guadagnatagli dalle prodezze sportive, aveva raccontato di essere arrivato nel Regno Unito da bambino, con la madre e i fratelli, per riunirsi al padre che era già qui. Il padre l’aveva invece perduto nella guerra civile, nel 1987. Gli avevano detto che avrebbe vissuto con dei parenti, ma non appena arriva a Londra la sua accompagnatrice straccia il foglietto su cui era appuntato il loro indirizzo e viene messo a lavorare presso una famiglia di sconosciuti «se volevo mangiare»: doveva accudirne i figli, lavarli, cucinargli, fare le pulizie. Solo anni dopo, nel 2000, quando già da tempo aveva cominciato a manifestare lo straordinario talento sportivo, il suo insegnante di educazione fisica lo aiuta nella pratica della richiesta di cittadinanza, per permettergli di competere sotto la bandiera nazionale.

UNA RIVELAZIONE struggente la sua, che dai piani più alti della cosiddetta cultura della celebrità si rovescia nella violenta realtà del traffico di esseri umani. A rigore di logica, il campione è un clandestino: papabile per un aereo verso la Giamaica come gli anziani migranti della Windrush generation, o impacchettato per il Ruanda come i richiedenti asilo sbarcati dalla Francia, secondo anni di politiche dell’«ambiente ostile» del governo conservatore.

Ovvio, per lui – quel «Sir Mo» prontamente insignito di una delle tremila onorificenze con cui l’establishment coopta i propri araldi e le cui vittorie hanno contribuito a trasformare la Gran Bretagna da matricola a superpotenza europea dello sport olimpico – naturalmente è tutto perdonato. Ma la vicenda denuncia la china discendente imboccata da un paese un tempo aperto ai rifugiati di ogni provenienza in questi interminabili dodici anni di dominio Tory: nella disperata urgenza di recuperare i voti sottrattigli dalla destra di Farage attraverso policy spietate che risalgono principalmente a Theresa May e al ministro dell’interno Priti Patel, e in base ai nuovi poteri votati dai parlamentari nel Nationality and Borders Bill, il governo avrà il diritto di privare una persona della cittadinanza britannica senza dirglielo. Qualcosa che finisce per discriminare le cosiddette «minoranze etniche» e che con la scusa della war on terror si era già sperimentata togliendo la cittadinanza a Shamima Begum, una delle tre adolescenti di East London recatesi in Siria nel 2015 per sostenere l’Isis.

QUANTO AL «VERO» Mohamed Farah, la chiusa del documentario riserva un momento di intensa commozione. Alla fine della sua personale maratona verso la verità, il campione si chiede chi sia davvero il bambino di cui aveva preso il nome e il posto sull’aereo che lo avrebbe portato verso il suo destino di campione «clandestino». Hussein chiama Mohamed al telefono, gli chiede notizie della sua vita, lo ringrazia: «Sono venuto qui da bambino e voglio solo dire grazie, ed è stato difficile, difficile». La risposta dall’altra parte del filo: «Va tutto bene, sei ancora mio fratello».