Emozionato e con il sorriso stampato, Luigi Di Maio lascia la guida del M5S con un lungo discorso politico, la promessa di «non mollare mai», l’invito a tutti di prepararsi «a nuova stagione» quando, a metà marzo, gli Stati Generali discuteranno il «cosa» e il «chi» della nuova fase del M5S. Insistendo a più riprese sulla necessità di sostenere l’azione di governo «dell’ammirevole Conte» fino alla fine della legislatura.

Tutto sommato un discorso onesto, di rivendicazione del lavoro svolto e di rassicurazione sul ruolo futuro del Movimento, un arrivederci inevitabilmente venato di risentimento(«traditori, nemici»), quanto povero di uno sguardo autocritico in grado di scavare in profondità sulle ragioni di una crisi evidente che la categoria del «tradimento» svilisce a lotta per bande.

Di sicuro la parabola degli uomini soli al comando mentre promette regimi ventennali alle destre, sull’altro fronte sembra infliggere rapide cadute, replicando la traiettoria del declino dopo il trionfo. Da Renzi precipitato dalla vetta del 40% all’attuale 4% e due scissioni all’attivo, a Luigi Di Maio, da ieri dimissionario dalla carica di capo politico dopo aver condotto i 5Stelle alla conquista del 32 per cento, dimezzando poi quel consenso nei successivi 20 mesi di governo.
Per l’invincibile armata stellare, già dopo il picco trionfale del 4 marzo 2018, era cominciata la logorante marcia nelle stanze dei palazzi del potere, con la difficile fase delle alleanze.

La compattezza aveva iniziato vistosamente a incrinarsi nell’abbraccio asfissiante con la Lega di Salvini, con crepe vistose sia dal punto di vista elettorale (l’emorragia di voti in tutte le elezioni, europee e amministrative), sia con il crescente malcontento interno. (Al netto della disinvoltura con cui molti sono saliti sul carro del vincitore accettandone le regole, per poi disconoscerle e riparare su altri lidi).

Dimissioni dunque lungamente e largamente annunciate, fin da quando l’insofferenza per l’uomo solo al comando era diventata l’ordine del giorno fisso delle assemblee parlamentari, con la richiesta di una sede di discussione «per una riflessione a 360 gradi», come chiedeva, tra gli altri, Roberto Fico. E a 360 gradi significa appunto dalla base al vertice e viceversa.

A ben vedere, soprattutto dopo il cambio di maggioranza, dal destro Salvini al democratico Zingaretti, era abbastanza naturale aspettarsi una crisi di leadership, che solo l’abilità di Grillo aveva tamponato, mostrando tuttavia la resistenza di Di Maio al progetto di un’alleanza con il Pd. Di conseguenza oggi scricchiola tutta l’organizzazione, compresa la gabbia politico-organizzativa della Casaleggio Associati, l’amministratore unico, alla fine il proprietario del movimento politico.

E nel momento in cui tutto sembra rimesso in discussione, non sarà semplice per i 100 «facilitatori» riportare la ciurma a remare nella stessa direzione.

Più che per questioni di governo, dove anzi Di Maio ha avuto buon gioco nel rivendicare di aver centrato importati risultati (dal reddito di cittadinanza, alla battaglia contro la corruzione e la casta), il passo indietro trova le sue giustificazioni nel progressivo sfaldamento del consenso perché la facile propaganda dei vaffa day trasformandosi nella rischiosa fase delle scelte di governo, ha riverberato sulla natura eterogenea e anarchica delle origini, che dall’uno vale uno è passata alla forzatura della cooptazione del ventenne di Pomigliano a capo assoluto.

Con un colpo di teatro Di Maio, il bravo ragazzo con la cravatta, se ne è liberato sciogliendo il nodo di fronte alle telecamere. Il segnale del via al liberi tutti.