Dopo i primi raid statunitensi di lunedì su Sirte, altre bombe sono piovute ieri sulla città costiera libica: colpiti una postazione lanciarazzi e un bulldozer dell’Isis. Nelle stesse ore si riaccendeva la guerriglia urbana, con le milizie pro-governative (brigate di Misurata in testa) che avanzano: ieri miliziani fedeli al governo di unità del premier al-Sarraj hanno ripreso il quartiere centrale di al Dollar, stringendo l’assedio sullo Stato Islamico. Secondo fonti locali, l’Isis sarebbe asserragliato in 5 o 6 palazzi e nelle strade vicino all’università.

I miliziani di Misurata sono vicinissimi, poche centinaia di metri, una lenta controffensiva cominciata a maggio e che ha permesso l’ingresso in città il 9 giugno. Ma, spiegano dal governo di unità, i cecchini e le trappole esplosive usate dall’Isis come ultima forma di difesa non si sconfiggono se non con la tecnologia militare che Washington ha e la Libia no: i miliziani a Sirte, raccontano, sono costretti a improvvisare armamenti più efficaci, montando lanciarazzi sui pick-up o comprando munizioni al mercato nero. Eppure la Libia del 2011 vide l’ingresso di quantità impensabili di armi e equipaggiamento da far invidia ad un esercito nazionale.

Ma proprio la debolezza militare è stata la motivazione che il primo ministro ha dato lunedì alla richiesta di intervento Usa. Ieri al-Sarraj ha fatto visita alla sala di comando dell’operazione Al Bunian al Marsous. Da qui, il portavoce Hadyah ha riferito ad Agenzia Nova l’intenzione di chiedere una nuova ondata di bombardamenti all’alleato oltreoceano: «Ci sono ancora circa 800 combattenti dell’Isis a Sirte. Se la nostra sala comando individuerà nuovi obiettivi, scatteranno altri raid Usa».

E mentre smentisce la presenza di truppe straniere in città, in sostegno all’operazione anti-Isis, Hadyah glissa anche sul rapporto di rivalità con il generale Haftar, divenuto capo dell’Esercito nazionale del parlamento di Tobruk, ex favorito occidentale.

Tra i miliziani a Sirte l’umore è comunque alto: «Penso che i raid Usa aiuteranno le truppe a terra. I nostri uomini celebravano l’operazione ieri notte», dice Abdalla Ali Ibrahim Ismail, combattente tra le fila della Brigata Marsa. La sensazione sul campo è che l’inizio della fine per l’Isis sia vicina.

Una presenza cresciuta in modo repentino nell’arco di un solo anno, fino a raggiungere 5-6mila miliziani concentrati nei 120 chilometri di costa intorno Sirte. Era stato lo stesso “califfo” al-Baghdadi poco tempo fa ad invitare i propri uomini a trovare rifugio in Libia, nel caso di pesanti controffensive avversarie in Siria e Iraq. Gli arrivi sono stati cospicui, dal nord e dal centro del continente africano: i miliziani al soldo del “califfato” sono tunisini (la maggioranza), egiziani, subsahariani.

Un elemento, quello dei foreign fighters, che dà all’avanzata islamista in Libia tutt’altra natura: se in Siria e Iraq i miliziani provenienti da mezzo mondo, compresi paesi occidentali, si appoggiano alla rete locale (lo zoccolo duro della vecchia al Qaeda in Iraq), i libici che hanno abbracciato la causa islamista hanno aderito a milizie rivali forti dei network tribali che da secoli governano la regione.

Se l’Isis (una volta persa Derna) è arroccato a Sirte, Ansar al-Sharia spazia nell’est del paese: affiliata di al Qaeda, la milizia è presente a Bengasi dalla caduta di Gheddafi ed è da tempo il target dell’anti-islamista Haftar. È inoltre il principale membro del Consiglio della Shura dei Rivoluzionari di Bengasi, che contiene al suo interno anche il gruppo 17 Febbraio e le Brigate Rafallah al-Sahati.

Sempre a Derna, consistente è la presenza del Consiglio della Shura dei Mujahideen di Derna, altra coalizione islamista che dallo scorso anno ha sostituito il rivale Isis nella città orientale. Avversari del “califfato” sono anche i rivoluzionari di Ajdabiya, a ovest di Bengasi.

Non solo Isis dunque, seppure sia tacciato come unica minaccia. In un paese profondamente frammentato in autorità diverse, decine di milizie armate – islamiste e non – dettano legge su pezzi di territorio. Una galassia che si aggiunge alla divisione “istituzionale”: ieri il parlamento di Tobruk, fino a poco tempo fa interlocutore privilegiato dell’Occidente, definiva i raid Usa una violazione della Costituzione libica. Difficile da digerire che la lotta all’Isis non sia passata per Haftar ma per al-Sarraj.

Gli umori e le strategie dei vari attori libici si scontrano dunque con quella del premier. E se la liberazione di Sirte pare prossima, la destabilizzazione frutto dell’intervento esterno di cinque anni fa si ripropone oggi in tutta la sua gravità: proteste di piazza, milizie che fanno appello alla mobilitazione contro le truppe straniere, parlamenti che restano attaccati con i denti all’autorità riconosciutagli da gruppi armati e fette di popolazione. E il sistema di propaganda e arruolamento dell’Isis, che non cadrà con Sirte: da Siria e Iraq il “califfato” ha esportato un modello funzionante, capace di espandere – se non la propria colonia – i propri coloni.