«Un uomo disperato è impotente; dieci uomini disperati possono fare al massimo qualche chiacchiera al bar; mille uomini disperati cominciano a fare un po’ di rumore; dodicimila uomini disperati, con donne e figli disperati, possono scrivere la storia. In questi giorni di lotta ne ho visto tanti di sguardi di uomini disperati. Uomini che lavorano duro e nonostante questo si trovano a non poter più mantenere le proprie famiglie. Stiamo lottando per il nostro futuro ma anche per il futuro della Sardegna e dell’Italia. Potremmo essere di esempio. E l’esempio non è poco. Lottiamo per tutti, perché oggi lo sguardo disperato che vedo negli occhi dei miei compagni non è solo dei pastori. E’ lo sguardo di qualsiasi uomo o donna che viene umiliato perché costretto a condizioni di lavoro che calpestano la sua dignità. Io so che la vinceremo nostra battaglia. Per noi e per tutti».

Sono le parole che Giovanni Ruiu, un pastore di Osilo, trent’anni, ha affidato a un video postato su Facebook. Ruiu è una delle migliaia di protagonisti di una rivolta spontanea, senza leader. Una rivolta nata dalla disperazione per non poter più tirare avanti. Il prezzo del latte è davvero da fame. Le stime degli esperti fissano per le aziende dei pastori la soglia del profitto minimo a ottanta centesimi al litro. Solo così può esserci, oltre alla copertura delle spese di produzione, un po’ di guadagno. Con i sessanta centesimi al litro che quest’anno i caseari offrono agli allevatori, invece, gran parte delle 12mila piccole e piccolissima aziende pastorali sarde sono condannate alla chiusura.

E’ da decenni che i pastori sardi lottano con gli industriali caseari per ottenere un prezzo del latte equo. Dagli anni Novanta hanno una loro associazione di categoria che si chiama Movimento dei pastori sardi (MPS). L’ha fondata Felice Floris, cinquant’anni, decimo di nove fratelli, licenza elementare e gregge nelle campagne di Desulo, nel cuore della Barbagia.

L’MPS è nato perché i pastori non si sentivano più rappresentati dalle tradizionali associazioni del mondo agricolo, a cominciare da Coldiretti e da Confagricoltura; troppo morbide con i caseari, troppo accomodanti con un ceto politico isolano incline, in quasi tutte le sue componenti, a prestare attenzione agli interessi degli industriali della trasformazione e ai cartelli della distribuzione piuttosto che ai pastori. Negli anni Duemila Floris ha guidato gli allevatori sardi in scontri durissimi: un assalto alla sede dell’assessorato all’agricoltura con i pastori che lanciavano pecore morte sul portone, blocchi di aeroporti e strade, incursioni sui traghetti, un blitz di trecento pastori che aveva come obiettivo il ministero dell’agricoltura a Roma e che fu fermato, allo sbarco sulle banchine del Porto di Civitavecchia, dalle cariche della polizia ordinate dall’allora ministro degli interni, il leghista Roberto Maroni. «C’erano donne e bambini – ha raccontato Floris in un’intervista di pochi giorni fa al Corriere della Sera – Ci hanno chiusi in un recinto e bastonato come fossimo bestie».

La rivolta di questi giorni, però, ha messo fuori gioco anche l’Mps. I militanti dell’organizzazione di Floris stanno anche loro nei presìdi che boccano le strade e sversano il latte. Ma sono una minoranza. La protesta è spontanea e i suoi portavoce parlano a decine sui social, dove postano video per spiegare che cosa stanno facendo e per organizzare le azioni di lotta. Soprattutto, quella che scuote la Sardegna e arriva sino al Viminale è una rivolta di massa, alla quale non può essere paragonata alcuna delle azioni pur eclatanti di Floris e dei suoi. Una rivolta che, per la prima volta nella lunga storia del braccio di ferro dei pastori con i caseari, esce dai confini degli ovili e da protesta di una categoria diventa mobilitazione di una regione intera: commercianti, studenti, sindaci, operai.

Il prezzo del latte c’entra sino a un certo punto. La lotta è per rivendicare la dignità del lavoro, di tutto il lavoro, non soltanto di quello di chi pascola pecore. Lo dice bene il pastore Giovanni Ruiu in quel suo post e lo hanno capito al volo i minatori di Olmedo, in prima fila nei cortei di solidarietà. Perciò parla, la rivolta, soprattutto alla sinistra. A quel che ne rimane.