Diecimila metri quadri di spazi espositivi disposti su quattro piani per due chilometri e mezzo di percorso. Tremila cinquecento anni di storia – dal 4000 a.C. al 700 d.C. – narrati attraverso cinquantamila reperti. Sono i mirabolanti numeri del rinato Museo Egizio di Torino, inaugurato lo scorso aprile al termine di un progetto di rinnovo quinquennale da cinquanta milioni di euro, di cui ben due terzi forniti da privati. Dietro queste cifre c’è soprattutto il volto pulito e determinato di Christian Greco, «cervello in fuga» per diciassette anni in Olanda, dove si è specializzato in Egittologia e ha mosso i primi passi al Museo nazionale archeologico di Leida, il Rijksmuseum van Oudheden. Richiamato in Italia al fine di trasformare una vetusta istituzione in uno shuttle culturale per un «futuro antico» – Greco ci racconta perché, dopo un anno di direzione, può già affermare di aver superato la sfida.

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Non una semplice riapertura ma un nuovo Museo Egizio…
La collezione è sempre la stessa ma i criteri museologici sono completamente diversi. L’esposizione si fonda su due assi imprescindibili: cronologia e topografia. È stato dato rilievo alla contestualizzazione dei reperti e al sito archeologico da cui provengono. Uno degli innumerevoli esempi è la «Tomba degli ignoti», scavata nel 1911, della quale abbiamo ricreato la situazione al momento della scoperta, allestendo una vetrina grande quanto la «camera A» – dove furono rinvenuti quattro sarcofagi – e collocando al suo interno gli oggetti in base alle indicazioni dei vecchi disegni. Inoltre, in collaborazione con l’Istituto Ibam del Cnr sono state prodotte ricostruzioni virtuali della Tomba di Kha, della Tomba di Nefertari e della Cappella di Maia. L’archeologia emerge in maniera preminente e – sebbene possa sembrare paradossale – ciò costituisce una novità per un museo egizio. Non si troveranno più, infatti, quelle aree tematiche diacroniche quali la vita o la religione nell’antico Egitto, che poco possono significare con tremilacinquecento anni di storia da descrivere e nell’ambito di contesti estremamente differenti. Un altro pilastro sul quale abbiamo impostato il nostro progetto è l’attenzione alla prosopografia, intesa come storia dei personaggi i cui monumenti sono conservati al museo e di cui ora – grazie al progresso degli studi – sappiamo molto di più rispetto al tempo in cui arrivarono a Torino.

La ricontestualizzazione, dunque, vale anche per gli oggetti acquisiti dal museo nel XIX secolo in seguito alla disgregazione di corredi archeologici unitari. È possibile, oggi, ricucire quei «disiecta membra»?
Grazie a una video-guida che forniamo a tutti i visitatori, i reperti del Museo Egizio vengono messi in connessione con quelli appartenenti allo stesso contesto ma ospitati in varie collezioni europee. In questo modo restituiamo, seppur virtualmente, una visione armonica del luogo originario in cui essi videro la luce.

Un progetto di musealizzazione si realizza in base a idee e modelli. A quali si è ispirato?
Nel 2014, appena assunto l’incarico di direttore, ho intrapreso – assieme al mio staff scientifico composto da otto curatori – un tour delle collezioni europee recentemente rinnovate. Dall’Ashmoleam Museum di Oxford – il quale ha come motto Crossing cultures, crossing time – abbiamo recepito quel concetto di sincretismo che s’incontra nei luoghi di confine sia temporali che geografici e che riflette molto bene la continuità della cultura materiale nel Mediterraneo. Del museo dell’Università di Manchester abbiamo apprezzato l’applicazione della diagnostica nello studio delle mummie, nonché il valore dato alla fotografia come documento scientifico e, in egual misura, strumento didattico. La Germania è stata un’altra tappa fondamentale del nostro viaggio di studio. Nei musei archeologici di Berlino e Monaco spicca l’importanza storico-artistica dell’Egitto e, di conseguenza, il registro narrativo evidenzia quest’aspetto. A Torino abbiamo scelto di far «parlare» una collezione che ha una natura binaria: da una parte, la tradizione antiquaria iniziata da Bernardino Drovetti, ufficiale napoleonico; dall’altra, l’esplorazione archeologica divenuta preponderante con l’arrivo, nel 1894, di Ernesto Schiapparelli.

Il nuovo Museo Egizio si configura anche come «monumentum», nel senso di ricordo, memoria. In che modo trapela la sua storia?
Un museo che ha duecento anni fa assurgere a dignità museologica anche la storia di se stesso, fa della metastoria. Noi raccontiamo le imprese delle donne e degli uomini che hanno contribuito alla sua creazione, come Erminia Caudana, la quale restaurò per cinquantanove anni i papiri che ancora oggi ammiriamo nelle sale. Un museo non è una teca nella quale affastellare oggetti ma è un luogo di ricerca in cui, ieri come oggi, si dispiega l’attività delle persone che rappresentano la conditio sine qua non perché esista. All’Egizio possediamo trentanove metri lineari di archivio cartaceo e quattordicimila lastre fotografiche che documentano le poderose campagne di scavo condotte nel XX secolo. Questo incredibile forziere di dati è stato indispensabile nella fase di riallestimento. Presto, faremo partire un piano di digitalizzazione per metterlo a disposizione della nostra équipe e della comunità scientifica.

L’«appeal» di un museo dipende molto dalla capacità di comunicazione dei suoi punti forti al più largo spettro di utenti. Come stimolate i visitatori?
Nel prezzo del biglietto (13 euro, ndr) è inclusa una video-guida di oltre due ore. I contenuti spaziano dal mio saluto di benvenuto al pubblico agli interventi di studiosi internazionali, i quali si esprimono su un particolare reperto, un sito o un determinato gruppo di oggetti. Il percorso è fruibile in sette lingue e si adatta a qualsiasi livello di preparazione. Dal prossimo dicembre sarà attivato un programma speciale per l’infanzia.

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Nelle sette lingue è compreso l’arabo?
L’arabo è una lingua fondamentale e non è presente solo nella video-guida. Nelle sale abbiamo diviso i testi in tre categorie. I testi A sono quelli introduttivi (duecento parole), i testi B caratterizzano le sezioni e i testi C costituiscono l’approfondimento. Tutti i testi A sono in italiano, inglese e arabo. L’Italia ha l’onore e l’onere di custodire una collezione che appartiene all’umanità intera, ma prima di tutto al paese dal quale proviene.

Qual è il legame del museo con la «madrepatria», l’Egitto?
Dopo vent’anni di assenza, in maggio siamo tornati a scavare in loco. In quell’occasione, ho incontrato più volte il direttore del Museo Egizio del Cairo. Inoltre, ho partecipato a un simposio nel quale, alla presenza di Tarek Tawfik, conservatore del Grand Egyptian Museum (Giza), abbiamo discusso sui nuovi criteri di allestimento di questo entusiasmante progetto. C’è un dialogo proficuo, che verrà intensificato con il lancio di fellowships attraverso le quali il nostro museo ospiterà curatori e ricercatori egiziani.

Come vede l’archeologia egiziana in rapporto alla difficile attualità politica del paese?
Sono ottimista per il futuro dell’Egitto, non solo dal punto di vista della ricerca archeologica. Gli scavi del Museo Egizio di Torino – in collaborazione con quello di Leida – nella necropoli di Saqqara hanno dato eccellenti risultati anche grazie al sostegno e all’apporto dei colleghi egiziani.

Tra egittologia ed egittomania il confine talvolta è labile. Come si può separare una disciplina storica dal suo cliché o, peggio, dalla sua mercificazione?
In questa sfida, l’Accademia ha un ruolo decisivo. È nostro preciso dovere non rinchiuderci in una torre d’avorio e impegnarci nella trasmissione della conoscenza per mezzo di registri adattati al pubblico che li riceve. Se le istituzioni culturali sono in grado di assolvere questo compito, non devono temere di essere soppiantate da altro.

Qual è, a partire dalla sua esperienza all’estero, il limite dei musei italiani?
Il limite più eclatante è la mancanza di risorse, che poi è anche l’ostacolo alla ricerca. Considero eroi molti dei colleghi che in Italia lavorano presso le soprintendenze e la pubblica amministrazione: devono fare i conti con una grave mancanza di personale. Sentiamo spesso dire che l’imprenditoria dei beni culturali potrebbe essere un volano per la crescita economica ma ci si dimentica che servono finanziamenti adeguati. Mi auguro che il decreto Franceschini incoraggi l’intervento dei privati e si sviluppi anche in Italia quel mecenatismo che negli Stati Uniti e nei paesi anglosassoni è una pratica consolidata.

Lei ha quarant’anni e questo ha certamente inciso sul nuovo corso del Museo. Accade raramente, però, che giovani menti siano richiamate in Italia per mettere al servizio del proprio paese il bagaglio di competenze acquisito all’estero…
Nel mio caso, il connubio Italia-estero si è rivelato vincente perché mi ha permesso di confrontarmi con un sistema altro e di mettere poi a frutto l’esperienza maturata. Purtroppo, la notevolissima carenza d’investimenti nella ricerca – un ambito che non è considerato strategico o perlomeno non abbastanza – implica che moltissimi italiani espatriati per ampliare la propria formazione non trovino più la strada del ritorno. Sarebbe bello, tuttavia, che l’Italia diventasse anche un paese «obiettivo» per gli stranieri. Guardo con invidia al British Museum che annovera nel suo organico studiosi provenienti da novanta paesi. Una ricchezza di cui noi non sappiamo apprezzare i vantaggi.

Il 3 giugno ha partecipato a un incontro su archeologia e scienza promosso dal polo sardo dell’Accademia dei Lincei presso la casa circondariale di Massama, a Oristano. Che effetto le ha fatto presentare il Museo Egizio davanti a una platea di detenuti?
Lo spirito dell’iniziativa sarda si avvicina molto a un progetto che ho in mente: il museo fuori dal museo. A Torino ho già iniziato a metterlo in pratica dando lezioni di egittologia ai bambini dell’Ospedale Regina Margherita. Noi operatori culturali abbiamo la grande fortuna di poter fare della nostra passione un mestiere. Di quest’opportunità straordinaria dobbiamo esser grati alla collettività e a essa restituire ciò che le spetta. Sono convinto che i musei possano fungere da «cerniera» e sanare – tramite l’identificazione culturale – conflitti e differenze, favorendo anche il reintegro sociale.