Che l’Organizzazione degli Stati americani (Osa) – significativamente ribattezzata in America Latina come «Ministero delle colonie Usa» – abbia ripetutamente legittimato invasioni e colpi di Stato è storia nota, ma che un suo segretario generale arrivasse ad ammettere la possibilità di un intervento militare, in chiara violazione del principio di non intervento adottato dall’organismo, non era forse mai successo.

NON SORPRENDE allora che abbiano suscitato scalpore le dichiarazioni dell’attuale segretario generale dell’Osa Luis Almagro venerdì scorso, durante una visita nella città colombiana di Cúcuta, alla frontiera con il Venezuela. Almagro ha sottolineato, riguardo a un intervento militare per rovesciare il presidente Maduro, la necessità di «non scartare alcuna opzione», a causa dei «crimini di lesa umanità» e delle «violazioni dei diritti umani» commessi, a suo dire, dal «regime». Immediata la risposta del governo Maduro, che – ha reso noto – denuncerà Almagro presso le Nazioni unite e altre istanze internazionali. «La stabilità regionale – ha dichiarato la vicepresidente Delcy Rodríguez – è seriamente minacciata dall’azione demenziale di chi usurpa la segreteria generale dell’Osa».

MA, STAVOLTA, LA REAZIONE non è venuta solo dal governo venezuelano e dai suoi alleati. A sconfessare Almagro è stato nientemeno che il Gruppo di Lima, l’ente multilaterale creato lo scorso anno dai governi di destra della regione, con la benedizione degli Usa, per rispondere alla «rottura dell’ordine democratico in Venezuela». Ben 11 dei 14 Paesi che ne fanno parte hanno infatti espresso, in un documento che solo Colombia, Canada e Guyana non hanno sottoscritto, «preoccupazione e rifiuto di qualunque azione o dichiarazione che implichi un intervento militare in Venezuela», riaffermando «l’impegno a contribuire alla restaurazione della democrazia in Venezuela attraverso una soluzione pacifica e negoziata».

SE QUELLA DI ALMAGRO è una delle tante minacce per Maduro, ancora più insidioso, tuttavia, è il pericolo rappresentato dalle contraddizioni interne allo stesso processo bolivariano, come indica il caso della marcia di più di 400 chilometri promossa dal 12 luglio al primo agosto da movimenti contadini, comuni e piccoli produttori per denunciare la politica del ministero dell’Agroindustria a favore dei grandi proprietari. A 40 giorni dalla riunione con Maduro, che aveva ricevuto i rappresentanti della marcia accogliendo tutte le loro richieste, i contadini hanno intrapreso uno sciopero della fame contro l’immobilismo di funzionari «corrotti e inefficienti», i quali, contraddicendo il mandato del presidente, si sono mostrati assai più bendisposti nei confronti dei latifondisti.

APPENA 30 ORE DOPO, però, lo sciopero della fame era già stato sospeso, dopo una riunione con la vicepresidente Rodríguez, il costituente Darío Vivas e il contestato presidente dell’Istituto nazionale delle terre Luis Soteldo, al quale sono stati dati 8 giorni di tempo per risolvere il problema della titolarità delle terre contadine e garantire il piano di semina per oltre 50mila ettari. Non solo: i contadini hanno anche ottenuto, con la sostituzione dei funzionari contestati, l’installazione di un tavolo di lavoro per discutere un nuovo modello di sviluppo agricolo e la ristrutturazione di tutte le istituzioni legate alla questione agroalimentare. «Vi sono sei milioni di ettari improduttivi», ha denunciato Arbonio Ortega, leader della Plataforma de Luchas Campesinas: «Se non si produce bisogna importare tutto e questo favorisce unicamente le mafie. Siamo noi che vogliamo produrre l’alimento per il popolo».