Il gruppo jihadista somalo Al Shabaab, legato ad Al Qaeda, domenica ha attaccato una base militare a Baar Sanguni, a 50 km da Kisimayo, sud del paese. «Abbiamo prima colpito la base con un’autobomba e poi l’abbiamo attaccata – ha detto alla Reuters Abdiasis Abu Musab, portavoce del gruppo per le operazioni militari – Abbiamo ucciso 27 militari e preso possesso della base, alcuni soldati sono fuggiti nella foresta».

Mogadiscio, pur non confermando, ha dichiarato per voce di Majo Mohamud Aden, responsabile militare della zona sud, di «aver inviato nella zona rinforzi». L’ennesimo attacco del gruppo jihadista (con la recente conquista della città di Af Urur a 100 km da Bosaso, zona settentrionale strategicamente importante) dimostra quanto Al Shabaab non sia stato minimamente indebolito dall’offensiva dell’esercito somalo e continui a controllare vaste zone della Somalia.

Riaffermando l’intenzione di sconfiggere definitivamente Al Shabaab sul piano militare il presidente somalo Mohamed Abdulahi «Farmajo» ha, ancora pochi giorni fa, annunciato che «Mogadiscio ha lanciato l’operazione finale per distruggere il gruppo jihadista e sarà velocemente in grado di controllare tutto il suo territorio nazionale». Dichiarazioni discordanti con la realtà sul campo.

La situazione è talmente difficile che il mese scorso il Consiglio di Sicurezza Onu ha adottato all’unanimità una risoluzione che autorizza l’Unione africana a mantenere la missione Amisom «fino a un miglioramento della situazione nel paese, senza un progressivo disimpegno del contingente almeno fino al 2020».

Un recente rapporto dell’International Crisis Group ha ribadito che «al momento non ci sono le condizioni per il ritiro dei militari di Amisom» visto che «oltre alla minaccia jihadista di Al Shabaab, permane la crisi diplomatica che da mesi vede contrapposti Emirati arabi e Qatar in Somalia e che continua a provocare una progressiva destabilizzazione nel paese».

Il Qatar, stretto alleato della Turchia, è uno dei principali sponsor del presidente somalo ed entrambi i paesi hanno creato un asse preferenziale con Mogadiscio. Il governo federale somalo mantiene formalmente una posizione neutrale in questo scontro, ma di fatto sostiene il Qatar.

Arabia saudita ed Emirati hanno, di conseguenza, esercitato pressioni sulle autorità federali e autonome somale e, sempre secondo Icg, «hanno interferito negli affari interni dispensando pagamenti a politici per incitarli contro il governo federale per prendere una posizione di netta condanna nei confronti del Qatar, a tal punto da far diventare la Somalia terreno di scontro delle potenze del Golfo».

Iniziata alla fine degli anni Novanta, la contesa territoriale è ancora in atto e coinvolge gran parte del territorio: dal Somaliland, autoproclamatosi indipendente nel 1991, al Puntaland autonomo dal 1998 per arrivare alle recenti secessioni di altre regioni autonome come Galmudug, Khatumo e Jubaland.

Una ferma condanna alle ingerenze straniere è giunta anche dal rappresentante speciale dell’Onu per la Somalia, Michael Keating, che ha chiesto alle parti di migliorare le divergenze attraverso il «dialogo» visto che «il ritiro del contingente Amisom è legato a stabilizzazione politica del paese, organizzazione di elezioni a suffragio universale e pieno controllo della sovranità di Mogadiscio, mentre ad oggi non c’è nessuna di queste condizioni».

Nelle sue osservazioni Keating ha sollecitato l’Onu a mettere nelle sue priorità la Somalia e il suo difficile processo di pacificazione, più che la missione a guida Usa Africom che, nonostante i numerosi bombardamenti, non sta portando i risultati desiderati. «Al Shabaab e le pesanti ingerenze dei paesi del Golfo – ha concluso nel suo rapporto Keating – rischiano di portare il paese alla completa disintegrazione».

Guerre, lotte interne e carestie hanno causato, secondo i dati dell’Oim per il 2017, la fuga di oltre 100mila profughi diretti verso lo Yemen, altro paese flagellato dalla guerra.