Non siamo tra Paesi «normali» e questo non è un momento «normale». L’Iran non è un Paese normale, dice il segretario di stato Mike Pompeo, ma uno stato da strangolare o al quale fare la guerra mandando altri militari in Medio Oriente.

Neppure l’Egitto del presidente Abdel Fattah Al Sisi, dove è appena morto, detenuto e senza cure, l’ex presidente islamista Mohammed Morsi, è un Paese normale. Nemmeno l’Italia è un Paese normale: se non ci fosse stato Giulio Regeni, torturato e ucciso dalle forze di sicurezza al Cairo nel 2016, anche noi saremmo molto amici del generale Al Sisi. Anzi, in realtà già lo siamo da un pezzo, nonostante gli oppositori a migliaia siano incarcerati e le sparizioni forzate continuino. Con un interscambio da sei miliardi di dollari l’anno, il mega-giacimento Eni di gas offshore di Zhor e le vendite di armi che non si fermano mai.

Più amici di noi – loro possono esserlo anche ufficialmente mentre noi al Cairo mandiamo degli ectoplasmi a chiedere giustizia per Regeni – sono gli americani, i russi, i francesi. «Al Sisi è una persona fantastica», ha dichiarato Donald Trump che ha ricevuto il generale in aprile alla Casa bianca confermando gli aiuti militari per 1,4 miliardi di dollari.

Certo infastidisce gli Usa che Al Sisi sia anche amico di Putin da cui vuole acquistare due miliardi di dollari di caccia Sukhoi. Quanto a Macron ha elargito una linea di credito da un miliardo dell’agenzia di sviluppo francese in cambio di consistenti acquisti di armamenti.

Tutti vogliono partecipare – anche noi italiani – al piano Vision 2030 dell’Egitto che prevede investimenti per oltre 45 miliardi di dollari. E chi è mai così stupido da inimicarsi l’Egitto, con le sue belle spiagge sul Mar Rosso che fanno da sfondo ai servizi sul beach soccer delle nostre tv?

L’Egitto, la nazione più popolosa del mondo arabo, è d’importanza strategica per gli Stati uniti e l’Occidente per via del trattato di pace con Israele e per il controllo del Canale di Suez, vitale per il commercio globale e l’apparato militare americano.

In questo Paese «normale», amico di Israele che tiene sotto scacco i Territori occupati palestinesi, è morto sul colpo in tribunale Mohammed Morsi, il primo presidente eletto democraticamente nella storia del Paese, che scontava un ergastolo mentre in appello era stata annullata una condanna a morte. Morsi, era detenuto dal 3 luglio 2013, quando lo depose Al Sisi con la violenza dei carri armati, con almeno un migliaio di morti per soffocare la protesta dei sostenitori della Fratellanza.

La sua parabola politica è stata particolare: non doveva essere lui il candidato dei Fratelli Musulmani per succedere a Mubarak dopo la rivolta del 2011 – da notare il diverso «trattamento» riservato a Mubarak, il Faraone contro cui insorse la Primavera araba egiziana, vivo e vegeto, a piede libero e quasi riabilitato con i potenti figli. Morsi, ingegnere chimico con dottorato negli Stati Uniti, venne scelto dopo l’esclusione dell’uomo d’affari Khairat el-Shater e poi vinse le presidenziali al ballottaggio per un pugno di voti contro Ahmed Shafiq, uomo del vecchio regime.

È stato un leader incapace di affrontare – ma restò in carica poco più di un anno – i problemi del Paese, che coltivava legami letali con i jihadisti nel Sinai e pensava di superare le difficoltà economiche (tante quelle del Fmi) e gli ostacoli posti dagli apparati del vecchio regime attribuendosi poteri speciali.

È stato spazzato via da un movimento di piazza ma soprattutto dal colpo di stato militare. Dei giorni precedenti il golpe restano i filmati delle interviste ai vertici dei Fratelli Musulmani e dei salafiti ospitati per un incontro, insolito, all’ambasciata italiana: i salafiti – ben più integralisti – già si smarcavano e poi avrebbero affiancato Al Sisi.

A parte le invettive di Erdogan, nel mondo laico e nella comunità internazionale il golpe egiziano venne accolto con imbarazzo ma anche con un sospiro di sollievo, dall’Occidente ma soprattutto delle monarchie del Golfo come l’Arabia Saudita e gli Emirati che tutto avevano da temere dal messaggio destabilizzante e troppo «democratico» dell’islam politico dei Fratelli Musulmani fondati dall’egiziano Al Banna negli anni Venti.

Oltre alla contrapposizione tra sciiti e sunniti, questa è stata l’altra decisiva frattura nel mondo musulmano che ancora oggi scuote la regione, come in Libia dove Egitto e monarchie del Golfo appoggiano il generale Khalifa Haftar contro gli islamisti di Tripoli che sostengono Sarraj.

Queste cose le avrà certo spiegate Pompeo a Salvini, che per altro è filo-israeliano e anti-iraniano, quindi un candidato perfetto a eseguire da «sovranista» gli ordini americani quando ci sarà da usare le basi in Italia in caso di guerra contro Teheran.

Uno dei pochi laici ad alzare la voce nel 2013 fu lo scrittore di Istanbul Orhan Pamuk. «Promuovere colpi di stato contro governi che sono stati eletti in modo democratico, solo perché non servono agli interessi occidentali è una cattiva abitudine», disse allora e aggiunse che il golpe di Al Sisi ricordava «quello cileno di Pinochet nel 1973», quando un altro generale traditore con il sostegno degli Usa fece fuori Allende. Per fortuna qui intanto siamo diventati uomini di mondo e sappiamo bene che i Paesi «normali» non esistono.