Se qualcuno avesse ancora bisogno di evidenze sulla drammaticità della diseguaglianza sociale che attraversa il pianeta e anche il nostro Paese, una lettura del World Inequality Report 2022, appena pubblicato, toglierebbe qualsiasi dubbio.
Il report analizza la diseguaglianza attraverso le due lenti della distribuzione del reddito e della ricchezza e fa una fotografia impietosa.

A livello mondiale, la metà più povera degli abitanti del pianeta riesce a portare a casa solo l’8% del reddito totale e possiede appena il 2% della ricchezza complessiva; per contro, il 10% più ricco si appropria del 52% del reddito totale e addirittura del 76% della ricchezza.
Se questa è le diseguaglianza a livello mondiale, profonda lo è anche a livello nazionale, pur essendo il nostro Paese annoverato fra quelli ricchi.
In Italia, la metà più povera della popolazione riesce a portare a casa il 20% del reddito totale e solo il 10% della ricchezza complessiva, mentre il 10% più ricco si accaparra il 32% del reddito e ben il 48% della ricchezza.

Che tutto ciò non dipenda da fattori oggettivi e immutabili lo dimostra l’andamento della diseguaglianza nel tempo, rilevato nel citato rapporto.
Se dall’inizio del secolo scorso agli anni ’70 l’andamento della distribuzione del reddito è stata continuativamente decrescente per il 10% più ricco e crescente per il 50% più povero, la tendenza si è decisamente invertita all’inizio degli anni ’80 per proseguire fino ad oggi; analogo andamento, con polarizzazioni ancora più marcate, è avvenuto per la distribuzione della ricchezza.

Ma cosa è successo dal 1980 ad oggi, se non l’avvento delle politiche liberiste e di austerità, che hanno prodotto la libera circolazione di merci e capitali, la deregolamentazione del mercato del lavoro, la finanziarizzazione dell’economia e della società, le privatizzazioni e lo smantellamento dello stato sociale? Fino a far diventare il nostro Paese, unico tra tutti i Paesi avanzati, ad avere oggi salari inferiori a quelli del 1990.
La diseguaglianza non è dunque un incidente di percorso, bensì il risultato perseguito di scelte politiche ben precise, quelle che hanno messo al centro le tre C (crescita, concorrenza e competitività), al cui altare sono stati sacrificati i diritti individuali e sociali.

Se poi quel 10% più ricco è anche il responsabile del 48% delle emissioni globali di CO2 e della conseguente crisi climatica, il quadro è chiaro: i ricchi fanno male alla società e alla natura.
E, come reso evidente dalla pandemia, uscire dall’economia del profitto e costruire la società del ’prendersi cura’ è oggi più che mai la direzione necessaria.
Niente di tutto questo traspare dalle politiche del Governo Draghi: il suo Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza è interamente indirizzato a sostenere la ’ripresa’ di questa economia e a pretendere ’resilienza’ dalla popolazione.

La sua legge di bilancio regala soldi senza condizioni alle grandi imprese e riapre i tagli alla spesa sociale e sanitaria, mentre la sua riforma fiscale privilegia i ceti medio-alti, approfondendo il già drammatico divario sociale.
E se la transizione ecologica affidata al ministro Cingolani ha assunto aspetti surreali, enormemente a rischio è persino la coesione sociale: dentro le comunità, con la privatizzazione dei servizi pubblici locali e fra le comunità con l’autonomia differenziata.

Il 16 dicembre, finalmente, c’è stato uno sciopero generale.
Sempre il 16 dicembre l’Economist ha incoronato Draghi, dichiarando l’Italia «Paese dell’anno». C’è ancora qualcuno che, senza tema di ridicolo, pensa di raccontarci che siamo tutt* sulla stessa barca?