Il giorno dopo la narrazione è unilaterale. Sulla «mayDay No Expo» del primo maggio a Milano parlano tutti: Viminale, Questura di Milano, il comitato sicurezza, il governo, il capo della polizia. Si resta in attesa del punto di vista alternativo da parte del movimento No Expo.

In uno scenario dove l’emittente è ancora solo uno, dalle ricostruzioni ufficiali emerge la conferma della tattica seguita dalle forze dell’ordine nella gestione di una piazza complicata, caratterizzata dai «riot» condotti da un migliaio di persone del blocco autonomo tra Corso Magenta e piazza Pagano. Lasciare che i fatti accadessero per un’ora e mezza, contenendo con i lacrimogeni la coda del corteo, affidando alle immagini dei media il giudizio negativo da parte dell’opinione pubblica.

In questo modo, le ragioni della contestazione all’Expo (dal lavoro gratuito alla corruzione dei «grandi eventi») sono passate in secondo piano, mentre gli spazi discorsivi per tradurre il senso anche di pratiche discutibili sono stati cancellati.

«L’Expo non si poteva macchiare di sangue, né dei manifestanti, né delle forze dell’ordine – ha detto il capo della polizia Alessandro Pansa – Il fatto che le forze dell’ordine abbiano atteso e lasciato che alcune azioni violente venissero compiute è una scelta fatta a monte». Al momento gli arresti sarebbero 5, le persone denunciate 14. Pansa ha spiegato il mancato intervento delle truppe mentre veniva appiccato il fuoco a 10 automobili: «Saremmo caduti nella loro trappola – ha detto – I piccoli gruppi che agivano in vie laterali si sarebbero rifugiati nel corteo e noi saremmo finiti addosso al corteo senza riuscire più a individuarli. Così avremmo consentito loro di raggiungere gli obiettivi che volevano. Invece hanno fallito. È stato il risultato migliore che potevamo portare a casa. Abbiamo scelto il male minore».

Nella ricostruzione offerta dal capo della polizia gli obiettivi del riot erano la Borsa, la sede dell’Ue e quella del Sole 24 ore, poi il Duomo e la Scala, «simboli di Expo», e non della città di Milano, ridotta a vetrina del grande evento. Sempre che questi luoghi fossero «obiettivi» dato che per il corteo erano irraggiungibili a causa della «zona rossa» protetta da grate e con mezzi pesanti dotati di idranti.

C’è anche la possibilità che i riot volessero rappresentare la simbologia di un conflitto dimostrando che l’Expo non fosse la festa di tutti ma delle multinazionali. Il male minore di cui parla Pansa può corrispondere all’obiettivo raggiunto dai manifestanti che hanno scelto queste pratiche. In questo gioco delle parti, le ragioni di un movimento rischiano di essere ridotte a questioni militari.

Al termine del Comitato per l’ordine pubblico e sicurezza, ieri la prefettura di Milano ha aggiunto un corollario insidioso: «La strategia – si legge in un comunicato – è stata adottata per salvaguardare l’incolumità dei cittadini e degli stessi manifestanti pacifici». Dello stesso avviso è il questore di Milano, Luigi Savina, secondo il quale «mezzo corteo – fermatosi per i lacrimogeni e il fumo acre degli incendi – non è mai corso in aiuto dei violenti».

Constatazioni che insistono, tra l’altro, sulle difficoltà attuali del movimento. La tesi è che le forze dell’ordine avrebbero protetto il corteo. Una versione discutibile perché il blocco autonomo era nel corteo e non ha avuto atteggiamenti ostili rispetto agli altri manifestanti. È possibile, invece, che siano state evitate le cariche indiscriminate viste, ad esempio, a piazza Barberini a Roma il 12 aprile 2014. Per contrastare un drappello di manifestanti che fronteggiavano un cordone di polizia facendo esplodere petardi in via Veneto, un corteo di 20 mila persone inermi è stato caricato, provocando diversi feriti.

Per il ministero degli Interni, il corteo No Expo è diventato paradossalmente l’occasione per celebrare un cambio di strategia in occasione del varo di Expo e acquisire consenso. «Anche per evitare un’altra Genova» si è letto in una nota ufficiale del Viminale. Espressione che non sembra alludere a un’autocritica tardiva, ma a «proteggere gli uomini prima che i mezzi».