Cresciuto a Haldeman, una cittadina del Kentucky che così com’era non esiste più, Chris Offutt ha portato con sé la sgradevolezza della polvere e la crudeltà della vita in quei luoghi sporchi e desolati, dove lavoravano perlopiù minatori che d’inverno affrontavano senza mezzi adeguati la rigidità degli inverni sulle colline assediate dai boschi. È una eredità, quella del suo paese di origine, che Offutt ha cara e anzi imprescindibile: la sua affezione per quegli spazi inospitali è una presenza pressoché carnale in entrambe le due prime raccolte dei suoi racconti, e non è dunque un caso se Offutt titolò il suo esordio Kentucky Straight, ora felicemente scovato e tradotto da minimum fax (a cura di Roberto Serrai, pp. 156,  euro 17,00) con il titolo Nelle terre di nessuno.
All’uscita del libro, nel 1992, non erano passati vent’anni da quando Offutt aveva lasciato la terra dove era cresciuto, e semmai l’importanza di quei luoghi rischiasse di passare inosservata egli si premurò di fissarne i contorni in una cartina dispiegata sulle due pagine introduttive del libro, dove si vede l’ubicazione delle case, della chiesa, della scuola elementare, del biliardo, dell’affumicatoio, perché lì si muovono i protagonisti dei suoi racconti, in interni, poveri e maleodoranti, assediati da una natura che non li prevede e crudelemente rinfaccia loro la necessità di assumersi la propria sopravvivenza come il compito primario cui fare fronte. Un compito sempre soggetto al rischio di fallire.

Qualche ombra di mistero
È poco più che una nuda vita, dunque, quella che incarnano i personaggi di Offutt, alcuni molto giovani e tuttavia già indirizzati verso il niente che sta loro alle spalle: per esempio, il bambino che in «Segatura» affronta – nella disapprovazione generale – il test per ottenere il diploma delle superiori, lo supera e tuttavia non vuole compilare i moduli per cercare lavoro, perché non sa immaginare per lui qualcosa di diverso dal destino di coloro che gli stanno intorno: «Qui quasi tutti aspettano di morire», dice alla volontaria che lo accoglie nonostante lui non abbia i 15 dollari necessari per il test: «Pagherò prima che cominci a nevicare», assicura, evidenziando quali siano i suoi riferimenti temporali; quanto a quelli spaziali: «Il posto dove abitiamo noi non c’è» constata guardando la carta del Kentucky appartenuta al padre.

Tutti i racconti di Offutt oscillano tra il privilegio di non possedere nulla e il grande vuoto determinato dalla disabitudine a desiderare. A volte, la terribilità del niente di cui è fatta la vita di quegli uomini fa sì che anche una gamba sia qualcosa cui si può rinunciare come fosse di troppo; di certo si spara facilmente: ai cani, anche ai propri, per ammaestrare quelli che restano, e rendere loro evidente cosa li attenda nel caso non obbediscano agli ordini; e agli uomini, quando cancellarli dalla faccia della terra è la soluzione più conveniente, anzi tutto per loro stessi, perché troppo crudele sarebbe il destino cui andrebbero incontro.
Frasi brevi, precise nell’incorniciare in poche parole il quadro dell’azione, si intervallano a dialoghi essenziali, incisivi, plasticamente aderenti alle diverse fisionomie dei personaggi; ma a volte un’ombra di mistero si insinua a ricordare che non tutto cade sotto il dominio del razionale, e presenze umane, ma non più abitanti il nostro mondo, si materializzano dai boschi dove hanno trovato rifugio. Accade in «Quello che devi lasciare», dove il bambino protagonista vede comparirgli davanti la figura di un vecchio che gli rivela di essere suo nonno. Cacciato di casa dalla figlia, poi rinchiuso in un luogo imprecisato, e dunque evaso, il vecchio vive in simbiosi con la natura in cui ha ricavato il suo asilo e parla al ragazzo come un maestro zen, capovolgendo la sua prospettiva sulle cose, e insegnandogli i trucchi imparati dalla vita degli animali che popolano i boschi.

Lontana dal mondo degli uomini è anche la vecchissima donna che in «Zia Lith, l’ultima levatrice», si è rintanata in una grotta e aspetta l’uomo che, improvvidamente gli si è promesso, infilando nel suo dito che credeva essere quello di un amico di gioventù, un anello inciso in una castagna: «Con questo anello io ti sposo» aveva detto scherzosamente Casey afferrando la mano sbucata da un tronco, che confidava appartenere al compagno rincorso e finalmente raggiunto. Da allora la vecchia aspetta di vedere compiersi la promessa e quando lo sfortunato Casey, che ha già seppellito due mogli, si appresta a sposarne una terza, Beth, proprio lei, vedrà sgusciare dal tronco la rugosa vecchina di cui ignorava l’esistenza.

Il clima intorno al matrimonio, officiato da un pastore che sostitusce quello locale, indisposto a sposare per la terza volta Casey con la prospettiva di rivederlo vedovo di lì a poco, è magistralmente raccontato: nella chiesa le due famiglie sono schierate, fuori uomini armati montano la guardia, mentre altri pattugliano il parcheggio, e quando Beth viene portata alla sua nuova casa, i fratelli di lei perquisiscono ogni stanza, il porcile e il pollaio. Ma la vera insidia si nasconde del bosco: quando Beth rimane incinta, la madre, che è una sorta di maga, la consiglia di andare a stanare la vecchia levatrice, perché tenerla buona è l’unica garanzia per non seguire le altre due mogli di Casey nella tomba. Beth parla dunque alla donna rintanata nel tronco di un albero: «Sei troppo vecchia per fare la moglie ma non morirai come sei nata», questa la sua promessa. Un epilogo tragico chiude il cerchio della vicenda come il climax di una fiaba nera e veritiera.
Tutto affidato al non detto, e alla sommessa discrezione di una fantasia erotica tenuta a distanza, è il breve incontro di William, in «Coda di cavallo», con una donna salita di rango grazie a un matrimonio fortunato: la ragazza gli si presenta poco vestita mentre lui sta lavorando come muratore nella casa del marito. Lo provoca, ma William resiste e torna dalla moglie, che sogna di annettere un bagno alla loro casa. Seduto sul divano, William scopre un frammento della plastica che protegge la similpelle del rivestimento: a ogni rata pagata, un altro pezzo del divano viene liberato. Poi esce, va sulla cresta dell’altura e guarda in basso la vallata ricoperta di piante di cannabis che coltiva su un terreno di proprietà della compagnia mineraria, ciò che dovrebbe dissuadere il governo dall’espropriarlo.

In una zona di miniere
Un rumore al limitare del bosco lo avverte di una presenza, e William scorge dal mirino del suo fucile un uomo che mostra sulla gamba i segni inequivocabili del morso di un serpente. È pericoloso che qualcuno veda la piantagione di cannabis, William fa per andarsene e lasciare l’uomo a morire lentamente; poi pensa di dargli lui il colpo di grazia, e finalmente torna indietro a salvarlo. Suo padre e suo nonno non avrebbero approvato quel gesto: l’uomo è infatti un funzionario della compagnia mineraria, uno dei responsabili ideali del destino del padre di William, rimasto sepolto dalla frana di una miniera. Torna dalla moglie, questa volta lascia che la fantasia della donna incontrata la mattina si faccia a posto nella sua mente, e intanto fantastica di regalare il suo fucile al nipote, se dimostrerà di meritarlo, ovvero di esimersi dall’usarlo.
Sconosciuto da noi, e poco noto anche in America, Chris Offutt ha subito indotto i primi critici dei suoi impeccabili racconti senza ombre di cadute a trovargli dei compagni di strada: sono stati citati Richard Ford, le cui ambientazioni, e la scrittura stessa, per la verità non lo ricordano affatto; e Tobias Wolff, forse evocato per una simile sobrietà delle sue frasi, e per il dirty realism di certi suoi contenuti, sebbene la fisionomia dei suoi personaggi non ricordi affatto gli uomini del Kentucky messi in scena da Offutt. Di certo, questo scrittore che in gioventù sognava di calcare le scene, dotato di un padre che adottò quattordici pseudonimi diversi per firmare circa quattrocento libri pornografici, arrivò al racconto dopo avere letto qualunque pubblicazione esistesse sul Kentucky e già naturalmente attrezzato anche sul piano stilistico. Tutti i suoi racconti lo testimoniano e, in particolare, quello più evocativo e carico di tensione titolato «Luna calante»: ne è protagonista un uomo dissoluto di nome Codey, che aderisce alla chiesa pentecostale di cui diventa pastore dopo che la sua cavalla viene uccisa da un fulmine.

Inchiodato ai fatti
Alla ricerca di proseliti, va verso la più smarrita delle sue pecore, il vecchio Tar Cutler, isolato nella propria casa la cui ombra si fonde con l’oscurità del bosco. Cody è convinto che redimere un peccatore come lui porterà l’intera famiglia Cutler in chiesa. Ma l’uomo è morto da giorni, un topo già ne rosicchia la spalla. Cody sputa a terra dalla rabbia, e progetta di raccontare che il vecchio si è redento subito prima di morire. Ma Tar Cutler ha una storia tutta diversa da raccontare, l’ha incisa su un nastro che l’astuto pastore riavvolge sperando di trovarvi una confessione circa il nascondiglio di chissà quale denaro.
D’ora in avanti il racconto è in prima persona: a parlare è Cutler e la sua storia agghiacciante conosce almeno due svolte cruciali, mentre una tensione continua innerva gli accadimenti, e alla natura ostile si mischia un po’ di spiritismo, necessario a riscattare quella brutalità degli eventi che non è mai fine a se stessa, né venata di echi romantici, bensì inchiodata ai fatti, senza il riscatto di una dimensione estetica alla quale appellarsi.
Del resto, come dice il vecchio Cutler: «Non si può dare la colpa alle colline per quello che ci succede in cima».