Come in ogni momento vero di passaggio, di snodo di prospettiva, vanno dette parole chiare. Il voto italiano, così diverso da tutti gli altri paesi, ci chiama a farlo. E prima ancora ci chiama a farlo la condizione materiale del paese. Mi ha colpito, per l’efficacia, la metafroa adoperata da Vendola nella discussione sul voto: i dati del Pil italiano sono come i chiodi della croce, ci inchiodano alla verità delle cose: la crescita non c’è, né ci sarà senza una svolta delle politiche depressive fin qui praticate in Europa. La crisi è più lunga delle previsioni e l’Italia, con la politica di cui sarà capace, se ne sarà capace, viene a porsi nel punto esatto di crocevia europeo della strada da seguire.

La nostra discussione, in Sel, sta precisamente qui: nel cuore in cui una disastrosa condizione sociale del paese chiede una politica che l’affronti. Condizione sociale dell’Italia e nuova politica sono l’una dipendente dall’altra e discuterne come fossero separate sarebbe il principale degli errori. Si tratta di capire se siamo all’altezza di questa discussione, o se i tanti stereotipi che si addensano a sinistra non ci consegnino, ancora una volta, a un destino minoritario. Penso che si debba discutere mettendo un punto fermo: noi siamo tre cose insieme. Una forza radicale, nella proposta di un modello sociale ed ecologico alternativo di produzione e di consumo. Una forza di sinistra, che fonda il proprio agire politico nell’intreccio tra equità sociale e libertà della persona. Una forza di governo, che ritiene questa pratica non un posizionamento ma una cultura politica costitutiva.

Siamo un’anomalia, ma una felice anomalia. E non è questa la via per lasciarci alle spalle il novecentesco fallimento delle due sinistre, del riformismo subalterno e del radicalismo minoritario, come dimostra il governo di Vendola in Puglia e dei nostri sindaci Pisapia, Doria, Zedda? O ci dimentichiamo che la crisi sociale non ha trovato ancora, tra quel riformismo e quel radicalismo, una valida risposta a sinistra? Usciamo allora dagli stereotipi, tra cui la sempiterna riapertura di cantieri politici costituenti e lo stazionamento attendista nelle anticamere governative, e facciamo agire questo valore aggiunto. Perché è qui che trova forma la nostra autonomia politica, senza in cui esercizio la sorte è segnata. Dare a Renzi svariate patenti, da quelle populiste a quelle neodemocristiane, è un altro stereotipo che non aiuta.

Dobbiamo viceversa misurarne gli atti, ma a partire da noi, dalla nostra cultura politica. Ciò comporta dire no a Renzi sul tipo di democrazia che promana dal suo disegno istituzionale, perché qui è l’architrave che lega rappresentanza, partecipazione e qualità della sfida di governo. E dobbiamo dire di sì alla scelta degli 80 euro come risposta all’emergenza sociale, spingendo al contempo affinché preluda ad una nuova politica economica. Così alla lista Tsipras dobbiamo dire sì nel portare avanti quella politica che allarga il campo della sinistra, favorendo in tal modo una svolta capace di superare le politiche di austerità che rischiamo di veder riproposte dopo il voto.

Penso ad un campo largo e fertile che – si trovi nell’elettorato del Pd come in quello dei 5 Stelle – esprime quanto noi criticità verso la politica delle compatibilità rispetto alla crisi e trova innaturali quelle alleanze che non mettono in campo un’alternativa di governo. E muovendo da qui dire di no al passo indietro costituito dal dover sperimentare altri contenitori, chiusi nella propria autoreferenzialità, capaci di testimonianza, ma inefficaci nello spostare avanti l’equilibrio delle politiche sociali europee. Fuori dagli stereotipi di cui possiamo morire, la nostra politica non è mai facile. Richiede ricerca, iniziativa, tenacia. E più di tutto, autonomia. Ma non dico una novità, da qui siamo nati. Qui è il codice genetico della nostra unica politica possibile.

* deputato Sel