Può una figura come quella di Cesare Romiti lasciare anche qualche insegnamento utile alla parte che gli fu avversa, ed i cui eredi adesso annaspano alla ricerca di un’identità smarrita e di una altrettanto smarrita funzione sociale e politica? Se si risponde affermativamente non è per sposare le giaculatorie sulla modernizzazione, una parola vuota all’ombra della quale si nasconde il dogma dell’egemonia capitalistica, e che la sinistra liberale sposa ogni qualvolta c’è da celebrare personaggi che hanno contribuito in maniera decisiva alla grande restaurazione.

La lezione di Romiti è quella di riportarci di fronte ad una realtà delle società capitalistiche che pare si sia persa di vista nel naufragio che ha travolto la sinistra, e cioè che esse, prima e più che seguire logiche di profitto, di mercato, di innovazione, seguono logiche di potere.

Questa fu la funzione di Romiti all’interno della Fiat di quegli anni, in perfetta combinazione con quanto si muoveva nello stesso torno di tempo in tutto l’Occidente, in quello che era stato l’epicentro fordista della rivolta operaia: la funzione, cioè, di ristabilire l’ordine proprietario nella fabbrica e nella società. Il fattore simbolico, e cioè politico, di potere, del braccio di ferro sui licenziamenti e della successiva marcia degli pseudo quarantamila, assume ben più valore, dal punto di vista delle logiche del capitale, che non la critica che pure a Romiti è per lo più rivolta, e cioè l’aver condotto l’opera sua ad una significativa restrizione del ruolo globale dell’azienda di cui era a capo nella produzione e vendita di automobili.

Salvare il potere del capitale, dunque, anche a discapito del core business della ditta. In questo la figura di Romiti è pienamente equiparabile all’intero management capitalistico a cui è stata affidato il tentativo di riscossa proprietaria messo in campo tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli ’80, ed oggi pienamente dispiegato. Salvare il potere del capitale in un’epoca di esacerbata competizione internazionale, di crescita impetuosa del salario diretto e differito, di crescita del potere del lavoro.

Il modello keynesiano, pensato per salvare il capitalismo dalla crisi, stava involontariamente per scavargli la fossa, come previsto in tempi non sospetti dagli studi di Kalecki. Welfare e piena occupazione favorivano una pressione oggettiva insostenibile sui profitti, mentre fornivano ai lavoratori un formidabile punto di partenza sul quale innestare le proprie rivendicazioni e la propria ascesa egemonica.

Numeri alla mano, la rottura del patto tra capitale e lavoro che aveva contraddistinto i “trenta gloriosi” poteva introdurre elementi di ulteriore squilibrio nei meccanismi dell’accumulazione. La prima risposta fu il ricorso all’inflazione e al debito pubblico, cioè la ripartizione tra la collettività degli oneri di mantenere una qualche armonia tra salari e profitti. Rivelatosi questo metodo insostenibile, fu la volta della facilitazione dell’indebitamento privato come via al mantenimento dei consumi in regime di attacco frontale al salario. Seguì quindi la panacea della globalizzazione, basata sull’illusione di poter attingere all’infinito a nuovi mercati del lavoro e del consumo, per vendere a prezzi più bassi merci a consumatori-lavoratori costretti a produrle in condizioni peggiori. Il tutto sorretto dalla bolla della finanziarizzazione.

Si scelse insomma di accumulare la polvere sotto il tappeto: ognuno di questi tentativi, ha efficacemente dimostrato Wolfgang Streeck, conteneva in sé i germi della crisi. Nel frattempo poteva però procedere l’opera di demolizione del potere conquistato dal movimento dei lavoratori. La crisi del 2008, e ancora lungi dall’esser riassorbita, ha sollevato il tappeto e la polvere si è sparsa in tutta la casa. Ma quando gli effetti hanno cominciato a farsi sentire, l’ordine proprietario era stato già ristabilito. Il potere era tornato saldamente nelle mani del capitale, ed i costi della crisi si sono potuti scaricare senza grossi patemi sulle fasce più deboli della popolazione. Sta qui il grande lascito di Romiti, e dei suoi coevi che nello stesso periodo hanno “rimesso le cose a posto” per conto sì di questa o quella grande famiglia capitalistica, ma soprattutto per conto della logica di potere inerente al capitalismo.

La sinistra, dal canto suo, dimenticava la questione del potere, vuoi per sostituirla con quella del “governo” – cioè del ricambio del personale chiamato a gestire un modello per il quale non si dà alternativa -, vuoi per rinserrarsi nel recinto identitario. Sarebbe utile, per ridarle funzione e scopo, imparare qualcosa dalla lezione di Romiti.