Nadia ha 21 anni, è diplomata, conosce tre lingue e vive nella ricca Brianza. Ha lavorato per un anno in una pizzeria di Nizza. Costretta a tornare in Italia, è in cerca di un lavoro che non trova. Tra le offerte dell’ultima settimana: uno stage che richiede l’ottima conoscenza del tedesco per svolgere un lavoro amministrativo. Compenso previsto: un rimborso spese pari a 350 euro.
La madre di Nadia, Francesca, cinquantenne, lavora invece come dipendente a tempo indeterminato in un mini-market a Robbiate. Lei fa ancora parte dei privilegiati: un lavoro fisso ce l’ha. Peccato che debba lavorare di sabato e domenica, modulare la richiesta di ferie alle esigenze del datore di lavoro pur avendo 52 giorni di ferie arretrate e, di fronte alla necessità di fare una settimana di vacanze a giugno, abbia ricevuto un secco no.

Anche il fratello di Francesca, Filippo, ha la fortuna di avere un rapporto di lavoro dipendente presso una multinazionale che opera nel settore informatico. Ma lavora da alcuni mesi con il contratto di solidarietà, conquistato dai sindacati per evitare che ai licenziamenti di 60 lavoratori avvenuti due anni fa se ne aggiungessero altri 20. La conquista ha questa conseguenza: l’azienda chiede a Filippo e ai suoi colleghi di lavorare come se la solidarietà non esistesse, facendo turni serali, di sabato e domenica, naturalmente non pagati.
Lucia invece è giornalista: 25 anni di lavoro nella redazione di uno storico quotidiano della sinistra (che non si sa se riaprirà e se potrà ancora definirsi di sinistra), in cassa integrazione a zero ore, è in attesa di sapere cosa succederà. Intanto fa volontariato.

Un’altra giornalista, Mina, 48 anni e residente a Roma, licenziata da un’agenzia giornalistica, anche questa sedicente di sinistra, per riconquistare un rapporto di lavoro decente dovrà trasferirsi a Cosenza. Ha aspettato sei anni: nove mesi di disoccupazione e cinque di lavoro altamente qualificato a partita Iva per una rete televisiva nazionale. Retribuzione netta percepita: circa 1900 euro al mese.

Storie di lavoro, storie nostre, storie di vita di persone in carne e ossa: di falso ci sono solo i nomi, per motivi facilmente intuibili.
Sviluppo e progresso tecnologico non hanno liberato le nostre esistenze dalla alienazione del lavoro sempre più incerto, intermittente, precario o, al contrario, invasivo, intensivo e pesante. In ogni caso ricattabile: viviamo per lavorare (forse), non lavoriamo per vivere.
Insicurezza e precarietà non escludono nessuno: sono scontate per chi il lavoro ancora non ce l’ha o se lo ha è temporaneo, ma sempre più presenti anche nella vita di chi un rapporto di lavoro dipendente e a tempo indeterminato ha fatto in tempo ad averlo.

La portata del Jobs Act e delle riforme che lo hanno preceduto va oltre l’impatto immediato, specifico e maledettamente concreto che le norme in essi previste hanno avuto ed avranno sui lavoratori che ne sono direttamente coinvolti.

In gioco c’è un modello di società (di cui il mercato del lavoro è una componente non esattamente secondaria) che mette letteralmente nelle mani delle imprese, piccole o grandi che siano, le nostre vite. Anche quelle di chi un lavoro fisso ce l’ha (o meglio lo aveva).

Se la mercificazione estrema del lavoro diventa legittima, non c’è garanzia acquisita che tenga. Francesca e le altre come lei dovranno rinunciare alle ferie, saranno spinte a lavorare anche in cattive condizioni di salute, il loro orario di lavoro non terrà minimamente conto delle loro esigenze di vita e familiari. Pena la minaccia e il rischio di perdere il posto di lavoro.
Filippo sarà costretto ad accettare di lavorare fingendo di non farlo, per solidarietà.
La competizione tra lavoratori precari e dipendenti, giovani e adulti, qualificati e non, è un artificio ingegnoso dei governi e delle imprese: stare al loro gioco significa rassegnarci tutti a una vita peggiore, alla perdita progressiva di diritti e di tutele.
È un destino inevitabile? Forse no.
Da qui la scelta di Sbilanciamoci! di mettersi alla prova con un Workers Act.