Una delle ultime performance dell’artista Ma Ei a cui ho assistito, la vedeva su un palchetto in un rigoglioso giardino tropicale in un abito corto con le spalline a stringhe sottilissime.
Costruiva una piramide di pentole e padelle tirandole fuori dalle buste del City Mart, il primo supermercato birmano allineato al capitalismo globale, fondato da una donna ventunenne, Daw Win Win Tint, nel 1996.
La giovane imprenditrice si è lanciata nel business dopo la laurea a Singapore e in un’intervista per Myanmar Frontier racconta di essere parte di una minoranza: «Ci sono poche donne alla guida di imprese in ambito commerciale. Io ho dovuto sfoderare un atteggiamento di grande sicurezza in me stessa per comunicare con gli altri stakeholders e i risultati del mio lavoro, nel tempo, mi hanno garantito il loro appoggio. Ma ho visto molta discriminazione nei confronti delle colleghe donne in posizioni dirigenziali.»

Ma Ei ha costruito un’architettura con oggetti simbolo della funzione della donna ritenuta fondamentale nella società: nutrire, crescere. E poi l’ha distrutta, un pezzo alla volta, pulendo e gettando via ogni singola stoviglia con gesti ripetitivi e tante lacrime. Abbiamo assistito a un pianto continuo. Non sorprende di trovare un radicato maschilismo nella società birmana, reduce da secoli di ferreo controllo dall’alto, prima con le monarchie assolute degli stessi birmani, poi tramite il colonialismo inglese e infine con la dittatura delle giunte militari di Than Shwe e Ne Win.
Le battaglie sono tante e su diversi livelli. Una delle più complesse e subdole è quella contro una visione molto diffusa in Myanmar, ma anche in altri Paesi asiatici, secondo cui alla donna è attribuito potere nella dimensione domestica familiare perché gestisce il portafoglio. Questa versione dei fatti l’ho sentita molte volte sulla bocca degli uomini, occidentali e locali.
Ma bisogna far parlare le donne per scoprire in che condizione vivono, e per quanto sembri un’ovvietà questa pratica non è consolidata nemmeno in Europa.

Così per approfondire la situazione birmana di oggi ho parlato con Shunn Lei della Rainfall Gender Study Organization, gruppo attivo dal 2011, seppur privo di riconoscimento ufficiale da parte del governo, che ancora non prevede giuridicamente la costituzione di associazioni di questo genere. Eppure il loro lavoro ha una responsabilità fondamentale nel dare forma al Paese, che solo dal 2010 si è gradualmente aperto e ha assunto una forma ibrida tra dittatura militare e democrazia.

L’organizzazione – infatti – ha formato e supportato donne di diversi partiti politici in varie zone del Paese a candidarsi alle elezioni del 2015, e alcune di loro oggi siedono in Parlamento.
Oltre a questo pubblicano un magazine distribuito a livello nazionale e operano a livello locale in comunità di tutto il Paese con l’obiettivo di mobilitare le donne in un vero e proprio movimento attraverso cui combattere e porre fine a sessismo, classismo, oppressione e discriminazione in ogni sua forma.

«Non c’è nessun equilibrio di potere nella famiglia birmana. Gli uomini sono automaticamente i capofamiglia e i tutori dei figli sui documenti ufficiali. Nelle nostre carte d’identità e sul certificato di diploma c’è solo il nome del padre e quindi, al di là della gestione economica, nella dimensione pubblica è l’uomo che detiene il potere, sono loro i soli rappresentanti della famiglia nella società e nei confronti delle istituzioni. Per molti è difficile riconoscere il sistema in cui viviamo e la nostra battaglia, veniamo trattate come estremiste anche da altre associazioni che si occupano di questione di genere e di diritti delle donne.»
Un aspetto che volevo esplorare meglio all’interna di questa lotta è quanto l’apertura democratica del Paese e la recente possibilità di accedere a Internet – e quindi di essere parte di un movimento globale, recentemente infiammato dalla campagna #MeToo – stiano contribuendo a migliorare la situazione.

Secondo Shunn Lei si sta assistendo, al contrario, all’acuirsi delle divisioni sociali, alla commercializzazione del femminismo e a un pericoloso fraintendimento per cui il femminismo viene associato a un ridotto gruppo di donne privilegiate che vogliono uguaglianza di status rispetto agli uomini della loro stessa classe sociale.
Ai più sfugge il fondamentale legame del movimento femminista con la lotta di classe e la necessità che il cambiamento riguardi tutte le donne di qualsiasi provenienza sociale.

Negli ultimi anni sono aumentate le denunce di violenze sessuali, anche grazie a una campagna portata avanti da un’altra organizzazione amica.
Prima ancora della campagna internazionale #MeToo, quindi, le donne birmane hanno riconosciuto il bisogno di condannare pubblicamente e collettivamente i crimini frutto del predominio di valori patriarcali, «ma nella società nel suo complesso prevale la convinzione che gli uomini saranno sempre responsabili di violenza e le donne sempre vittime, una visione che non fa che rinforzare una relazione di potere impari». Del resto, guardando all’influenza del buddhismo nella società birmana si osserva una legittimazione di questo sistema.

Secondo il codice monastico infatti le suore buddhiste possono prendere i voti in modo parziale e spesso la loro vocazione è associata al pregiudizio per cui si crede che siano perlopiù donne povere e abbandonate che scelgono questa strada perché non hanno alternativa, e dunque non vengono prese sul serio come guide spirituali.