Le riunioni del Gruppo 47, dove appunto dal 1947 si incontrano, per leggere i propri testi e per discuterli liberamente, nella plumbea atmosfera adenaueriana, scrittori come Heinrich Böll, Ilse Aichinger, Martin Walser, Günter Grass, sono davvero il «Caffé Centrale» della letteratura di lingua tedesca del secondo Dopoguerra. Ingeborg Bachmann vi è invitata nell’aprile del 1952, e vi leggerà le sue prime poesie, Hans Magnus Enzensberger entra nel gruppo nell’ottobre del 1955: tra loro si stabilisce subito una fortissima intesa, che si farà ancora più forte negli incontri italiani – lei ha una casa a Roma, lui ha affittato una casa a Lanuvio, sui colli Albani – testimoniata anche dal carteggio che esce ora in Germania con il titolo «Schreib alles was wahr ist auf» Der Briefwechsel (Suhrkamp «Piper», pp. 480, € 44,00), a cura di Hubert Lengauer, come terzo volume della grande Salzburger Edition delle opere della Bachmann, dopo «Male oscuro», Aufzeichnungen aus der Zeit der Krankheit (i protocolli dei suoi sogni, che saranno poi ripresi nel romanzo Malina) e Das Buch Goldmann. Sono 130 lettere, 53 della Bachmann, 77 di Enzensberger, e vanno dal novembre 1957 all’ottobre 1972.
Ingeborg Bachmann si è affermata giovanissima – è nata a Klagenfurt nel 1926 – con la raccolta di poesie Il tempo dilazionato (’53) e Invocazione dell’Orsa Maggiore (’57) come la nuova grande voce della lirica. Enzensberger, di tre anni più giovane, con Difesa dei lupi (’57) riprende impavidamente la feroce e illuministica poesia brechtiana e con Questioni di dettaglio (’62) si afferma come acuto critico della società di massa e delle aporie dell’Avanguardia. Dopo un inizio «letterario» – «dobbiamo scrivere un libro insieme, un libro capace di volare, una Mongolfiera» – le lettere di Enzensberger lasciano trasparire una forte fascinazione – «dopo la tua partenza l’aria si è come fermata», «ti sogno molto spesso»… – la Bachmann è coinvolta, ma più sfuggente. Poi la tensione magica scompare, si trasforma in una lunga, affettuosa amicizia, fatta di confidenze e nutrita di letteratura. L’acme del loro rapporto è nell’estate del 1959 – l’incontro è registrato e denunciato anche da Max Frisch, compagno geloso e inquisitore implacabile – ma l’intelligente commento di Hubert Lengauer, che illustra molto bene tutto il complesso contesto del carteggio, evita ogni voyeurismo: «Queste lettere mettono in luce molte cose, altre cose restano necessariamente in ombra ed è bene che restino coperte dalla discrezione». Preferisce mettere in luce la loro personalità, così diversa, e il loro fittissimo dialogo intellettuale.
Un momento importante, discusso a lungo nel carteggio perché sia Enzensberger che la Bachmann ci credono e sono presenti, in primo piano, è il progetto di una rivista internazionale, annunciata nel n. 7, 1964 de «il menabò», che coinvolge Elio Vittorini, Italo Calvino, Francesco Leonetti, Günther Grass, Uwe Johnson, Roland Barthes, Maurice Blanchot, Dyonis Mascolo, Maurice Nadeau, Michel Butor, Louis-René des Forêts, Jean Starobinski … La rivista dovrebbe chiamarsi «Gulliver», i contatti sono intensi ma le posizioni sono troppo distanti e il progetto fallisce. I documenti e la corrispondenza degli autori sono raccolti in Riga 21. «Gulliver» a cura di Anna Panicali (Marcos y Marcos, 2003), nel carteggio Bachmann/Enzensberger viviamo tutta questa intricata storia, «la giungla della rivista», come la chiamano, più dall’interno: i dubbi della Bachmann sul nome «Gulliver» e sul «giornalismo», le forti riserve dei tedeschi non tanto su Blanchot, ma sugli «emuli di Blanchot», Mascolo e compagni, il ruolo mediatore di Butor e di Vittorini, i tentativi e le strategie di Enzensberger per salvare il salvabile.
Nel fitto dialogo intellettuale che Enzensberger e la Bachmann amano condurre, vengono in luce, amabilmente ma anche apertamente, le divergenze: il romanticismo del radiodramma Il buon dio di Manhattan è poco conciliabile con il pragmatismo di Enzensberger, così la «letteratura come utopia» delle lezioni berlinesi della Bachmann, con tutto il suo pathos, lascia piuttosto freddo l’amico. E, viceversa, La breve estate dell’anarchia, dedicato a ricostruire, con un esperimento di scrittura fattuale, vita e morte di Bonaventura Durruti nella guerra civile spagnola del 1936, non convince per nulla la Bachmann: «Ho letto con particolare interesse la tua documentazione (non la chiamerei proprio un romanzo, ma lasciamo perdere)».
Non si potrebbero immaginare, effettivamente, personalità più diverse. Enzensberger, dopo il folgorante inizio di Difesa dei lupi, coltiva con successo la sua immagine di «angry young man», interviene incisivamante nella vita politica e culturale con la rivista «Kursbuch», che fonda nel 1964, si afferma come terribile polemista e come saggista inquieto e mercuriale. «Se rimango fermo, non capisco niente». Tra le sue cose più acute e più fantasiose il lettore italiano può leggere «Una modesta proposta per difendere la gioventù dalle opere di poesia», in Sulla piccola borghesia (il Saggiatore) e la deliziosa «Intervista con Diderot», in Dialoghi tra immortali morti e viventi (Mondadori). Ingeborg Bachmann è già tutta nelle sue prime raccolte di poesia, cariche di furore e di utopia, dove il mondo è potentemente sconvolto «tra il nero funereo e il biancore liquido della vita» (Mittner). C’è poi la scoperta di Simone Weil, di Hannah Arendt, e, una vera passione, di Balzac. Abbandonata la lirica – a parte la luminosa eccezione di La Boemia è sul mare – prende forma un grandioso progetto di «realismo» vòlto a raccontare il mondo viennese: «Capisco oggi che sono eternamente austriaca», scrive ad Enzensberger nell’estate del 1966. Nascono così, primo romanzo del ciclo Cause di morte, la tortuosa e lacerante autoanalisi di Malina (1971), i racconti di Tre sentieri per il lago (’72), con Nadia, Beatrix, Miranda, con le loro laboriose strategie per sopravvivere, e i postumi Il libro Franza, l’illusione di un impossibile ritorno a casa, che si infrange ai margini del deserto, nella «tenebra egizia», e Das Buch Goldmann. Quest’ultimo romanzo, che si addentra anche nel variopinto mondo letterario-editoriale, con le sue ambizioni e i suoi inganni, della Fiera di Francoforte, è una storia ricca di liberatorii tratti grotteschi – Fanny cade in balia di un ambizioso scrittore senza scrupoli, che mette in pubblico, ferendola profondamente, la loro vita privata, così come ha fatto Max Frisch in Il mio nome sia Gantenbein – ma anche, nelle persone di Fanny e Ernst, così vicini e così lontani, di affettuosa e drammatica complicità.
Questo carteggio nasce in anni molto difficili per la Bachmann, segnati dalla sua inquietudine esistenziale, da angosciosi fantasmi e da crolli psichici, dal legame intensissimo e impossibile con Paul Celan, dalla sciagurata relazione con Frisch. Queste lettere rivelano le sue angoscie, ma anche la volontà di «andare a fondo» e la capacità di risalire con orgoglio e allegria. Certo l’aiuta anche l’amicizia di Enzensberger, una persona su cui si può contare, e che le scrive: «Non prendere più le pillole, ti prego, e in caso estremo, quando non c’è più niente che ti può tirar sù, in nome di Dio, prendi carta, macchina da scrivere e parole e scrivi tutto quello che è vero». E la Bachmann: «Non ho mai paura quando apro una delle tue lettere, anche se spessissimo ho paura, anche senza motivo».