L’Ethica ordine geometrico demonstrata non è soltanto uno dei libri più grandi che siano stati scritti, è soprattutto un libro vivo. In Libre comme Spinoza. Une introduction à la lecture de l’Éthique (Max Milo Éditions, pp. 287, euro 19,90) Denis Collin accompagna il lettore in questo labirinto di saggezza, senza mai ridurre il cammino a un semplice commento, ma diventando una vera «introduzione» alla complessità del pensiero spinoziano.
Contrariamente a ciò che a volte si pensa, Spinoza (1632 – 1677) non fu affatto un pensatore solitario e misconosciuto ma intrattenne rapporti sia diretti sia epistolari con alcuni dei più importanti studiosi del suo tempo, fu un uomo celebre già da vivo – per quanto sempre riservato -, costantemente impegnato nel dibattito politico della sua epoca. Anche l’Ethica è un libro politico poiché enuncia le strutture metafisiche dell’emancipazione. Emancipazione da ogni superstizione vale a dire dagli errori e dagli equivoci concettuali che imprigionano le nostre vite tra le stanghe dell’inquietudine e della sottomissione alle passioni individuali e collettive. Passioni che Spinoza non rifiuta affatto, giudicandole anzi costitutive dell’umano, ma che insegna a gestire e a vivere in modo che non ci danneggino troppo e anzi ci sostengano nell’esistere. Chi vuole essere libero deve vivere nell’immanenza, nella pienezza del qui e ora.

La costanza indistruttibile di tutto ciò che esiste viene definita da Spinoza con la parola Deus, che quindi non ha alcun significato personalistico, non è una volontà ma indica la potenza eterna dell’essere, della quale noi e ogni altro ente siamo manifestazione parziale ed eterna in quanto partecipiamo dell’eternità della sostanza. C’è in Spinoza una chiara declinazione antisoggettivistica, avversa all’interiorità e favorevole invece alle strutture oggettive della materia e delle sue leggi. Al di là dei due gradi dell’immaginazione confusa e della ragione calcolante, questo filosofo coglie il livello supremo dell’intuizione intesa come amor Dei intellectualis, come comprensione e accettazione del fatto che il corpomente umano è parte di un tutto. La mente altro non è che l’idea del corpo: «Sottolineare questo: ’la mente è l’idea del corpo’ e non ’la mente ha l’idea del corpo’».

La filosofia è come un imparare a nuotare diventando una cosa sola con l’acqua in cui si è immersi: «Ci sembra che l’amore intellettuale di Dio è questo! Il momento in cui la mente singola non esiste più come un soggetto di fronte all’oggetto, il momento in cui i pensieri del saggio sono talmente coordinati con i pensieri delle cose e con l’idea di Dio, che la mente del saggio è come si estendesse alla dimensione del mondo intero, e dunque che la parte si estenda al tutto (almeno potenzialmente)». Il pensiero di Spinoza è una «filosofia del limite», distante da qualsiasi antropocentrismo, cristiano o cartesiano che sia, e vicino invece al pensiero dei Greci: «Si può vedere in questo pensiero dell’impotenza umana una traccia dell’idea greca che sottomette l’uomo all’ordine dell’universo e condanna le pretese umane di sfuggire a tale ordine, condanna la dismisura, ciò che i Greci consideravano come il solo vero peccato – ricordiamo che il ’conosci te stesso’ significa prima di tutto: ’conosci la tua propria misura’. Qui si può anche vedere una prefigurazione di alcune correnti del pensiero moderno, le quali condannano la folle pretesa umana di dominare la natura».

Uno Spinoza greco emerge quindi dalla lettura di Collin, sempre attento a cogliere e a chiarire «il carattere profondamente classico dell’etica spinoziana e i suoi intimi rapporti con le concezioni degli antichi», in particolare con l’epicureismo e con l’Etica nicomachea di Aristotele. Greco anche perché lontano da ogni speranza: «Il saggio non ha bisogno di sperare, poiché è pienamente felice» nel senso che egli accetta sino in fondo la natura desiderante della sostanza umana – senza la quale saremmo semplicemente morti – ma la volge in azione del corpomente, non subendola più come passione della volontà in balia degli eventi esterni. Siamo dunque macchine del desiderio e lo siamo al punto che «filosofare non vuol dire rinunciare alla gioia e al desiderio, al contrario significa dare loro il massimo spazio» all’interno della struttura necessaria della vita.

Sta qui la piena consequenzialità della critica radicale che Spinoza ha rivolto alla superstizione del libero arbitrio, poiché credersi liberi – nel senso di non avere cause agenti delle proprie decisioni – significa semplicemente separare l’umano dalla natura e quindi dalla sostanza, trasformarlo in un «impero dentro l’impero», non comprenderlo più nel cerchio vasto dell’essere, sul quale si fonda anche la comunità umana libera perché costruita sul limite reciproco e condiviso, nel quale la «potentia» di ciascuno non diventa «potestas» tirannica di nessuno.

Lo spinozismo è una «gaia scienza», assai vicina a quella nietzscheana, sia come filosofia del sospetto verso i principi morali eteronomi sia come disincanto. Di questa gaia scienza è parte la comprensione di uno dei sentimenti più potenti che si diano, la passione amorosa. Spinoza, come molti faranno dopo di lui con strumenti di carattere più empirico o più artistico, mostra come noi non amiamo qualcosa o qualcuno perché è «buono» ma lo giudichiamo tale proprio perché lo desideriamo, lo amiamo. L’amore è cieco, alla lettera.

Spinoza rimane, invece e inevitabilmente, legato ad alcuni dei pregiudizi e delle convinzioni del suo tempo, anche quando sono evidentemente contrari allo spirito profondo della propria filosofia. Tra questi pregiudizi c’è la relazione gerarchica e antropocentrica con gli altri animali. Se, a differenza di Descartes, Spinoza ammette che gli animali abbiano sensazioni, «afferma che l’uomo ha tuttavia il diritto di disporne secondo la sua volontà: il diritto non è che una questione di potere ed essendo il potere umano superiore a quello degli animali, egli può imporre il suo diritto di natura». E questo dimostra che anche l’uomo più saggio, il filosofo più acuto, non può del tutto astrarsi dal proprio tempo.