«In Germania il problema principale è l’astensionismo», sostiene Fabio De Masi. Di origini italiane, ma nato e cresciuto in Germania, l’economista 34enne è uno dei candidati «di punta» della Linke alle europee. «Da noi non sono visibili come in altri Paesi gli effetti delle politiche della troika (Bce, Commissione Ue, Fmi), ed è difficile mobilitare per le europee il nostro elettorato tradizionale di lavoratori e disoccupati. Sopprattuto se si organizza, come fa la Linke, un voto di protesta».

Contro di chi vorreste indirizzare il voto di protesta? La cancelliera Angela Merkel?

Non esattamente. Merkel è percepita come la leader che ha condotto bene il Paese nella crisi. Una sua storica frase fu: «la Germania uscirà da questa fase più forte di prima». Posto che la crescita nel 2013 è stata solo dello 0,4%, quel che ha detto Merkel è vero se parliamo dei profiti delle grandi imprese. Ma è falso se parliamo dei lavorator precari e con salari molto bassi. Ed è tra questi ultimi, purtroppo, che cresce la disaffezione verso il voto. Fra i più «garantiti» si diffonde, invece, un sentimento di sicurezza: non amano Merkel, ma la sentono come una tutela. Per questo non intendiamo focalizzarci su Merkel, ma vogliamo orientare a sinistra un sentimento generalizzato di insoddisfazione.

Può fare un esempio?

In Germania circola l’idea che abbiamo pagato di tasca nostra per salvare la Grecia. La Linke dice: «è vero che diamo soldi alla Grecia, ma quel denaro non va a lavoratori e pensionati, ma alle banche tedesche che vantano crediti verso quel Paese». Se riusciamo a ridefinire in questi termini il discorso dominante, possiamo dare all’insoddisfazione strisciante un profilo di sinistra.

Che ruolo gioca la candidatura di Alexis Tsipras?

Per la Linke è importante, e così per le realtà sociali e culturali di sinistra al di fuori del partito. Non saprei dire se lo sia anche per vasti settori della popolazione: è la prima volta che sperimentiamo una candidatura alla guida della Commissione. La Spd ha gioco più facile, avendo i socialisti europei come leader proprio un tedesco, Martin Schulz. In ogni caso, nessun riscontro negativo, malgrado i nostri avversari ci accusino di volere fare diventare la Germania come la Grecia.

Il cosiddetto «salvataggio» della Grecia ha rimesso in circolazione sentimenti anti-europei e parole d’ordine populiste di destra anche in Germania: come reagite?

Bisogna chiarirsi su cosa si intenda per «antieuropeismo». Un conto è l’Europa come unione di popoli, un altro il mercato comune. È vero che il sentimento favorevole nei confronti dell’integrazione europea ha subito contraccolpi: questo non è un fatto negativo in sé, ma dipende da come si articola la critica al mercato comune. Faccio un esempio. Di fronte alla campagna dei democristiani bavaresi sull’immigrazione dall’est europeo (sugli abusi da parte dei migranti ai danni del welfare tedesco, ndr), non possiamo limitarci a dire che le parole d’ordine della Csu sono «antieuropee». Dobbiamo controbattere che non sono i migranti a commettere frodi, ma i loro datori di lavoro, che li reclutano con il caporalato, li sottopagano e poi li mandano a chiedere sussidi. Non dobbiamo fare finta che i problemi non esistano, ma interpretarli diversamente.

A proposito di lavoro, c’è la percezione diffusa che Merkel abbia difeso i lavoratori tedeschi, scaricando i costi della crisi sugli altri Paesi. Eppure in Germania ci sono precariato, minijobs, lavoratori poveri…

La cancelliera non oserebbe mai fare in patria ciò che predica per gli altri: perderebbe le elezioni. Non è vero, tuttavia, che i lavoratori tedeschi stiano così bene. Una delle cause della crisi sta proprio nel fatto che i salari qui non sono aumentati al ritmo dell’aumento della produttività. Ora è stato introdotto il salario minimo legale di 8,5 euro, ma attenzione: entrerà in vigore solo nel 2017. E in Francia già oggi è di oltre 9 euro. Inoltre, quasi un quarto dei lavoratori sono working poors, e c’è da aggiungere che dalle «riforme» neoliberali di Gerhard Schröder (1998-2005) il volume complessivo di lavoro non è aumentato, ma solo suddiviso fra persone pagate peggio.

Come si inserisce in questo quadro il tema dell’euro?

La Linke non propone la fine della moneta unica, ma mette in guardia dal continuare così: se non cambia la politica economica, l’euro non può sopravvivere. È la troika che sta distruggendo l’euro, come dice il Nobel Joseph Stiglitz.

La Linke arriva a questo appuntamento elettorale dopo avere attraversato una lunga fase di dibattito interno, dove sono riemerse divisioni anche accese fra le varie anime: quanto è unito oggi il partito?

Tutti ci poniamo l’obiettivo di andare al governo: le divergenze riguardano le condizioni per farlo. Sull’Europa abbiamo valutazioni diverse sul processo d’integrazione. Per semplificare: alcuni dicono che l’Ue è un ottimo progetto che oggi è condotto molto male da Merkel, mentre altri evidenziano che ci sono anche problemi di fondo nell’architettura dell’Ue. Io sono fra questi ultimi. Penso che il nostro compito non si esaurisca nel creare maggioranze di sinistra: se anche ci riuscissimo, ci troveremmo subito di fronte ai vincoli posti dai trattati Ue, come la libertà assoluta di circolazione dei capitali. Bisogna prendere sul serio il disagio che sta crescendo nei ceti popolari verso l’Ue per non lasciarlo alla destra. La questione decisiva è la democrazia. Se si vogliono eliminare certe prerogative dei parlamenti nazionali, ad esempio sulle missioni militari, per affidare tutto a questa Ue, io difendo che i parlamenti continuino ad avere l’ultima parola. Questo perché in Germania ci sono le condizioni per un dibattito, mentre nella Ue non ancora.

Cosa si può fare affinché nasca anche un’opinione pubblica europea?

Si dovrebbe consentire, ad esempio, a un deputato greco di intervenire al Bundestag. Immaginate Tsipras che dalla tribuna del nostro parlamento, prendendo la parola nel turno della Linke, denunciasse gli effetti sulla Grecia della politica voluta dal governo tedescol. Il giorno sarebbe su tutte le prime pagine.

E a che punto siamo, a suo giudizio, nel cammino dell’europeizzazione di moviment e partiti?

Non dobbiamo nasconderci che sia molto difficile che un operaio specializzato tedesco si senta al fianco di un impiegato pubblico greco. Tuttavia, la lotta di qualche anno fa contro la direttiva Bolkestein sulla liberalizzazione dei servizi mostra che mobilitazioni europee sono possibili, quando i sindacati ne capiscono l’importanza. Le lotte devono sempre avere un collegamento con le questioni del lavoro: altrimenti rimangono episodi, utili, ma che non cambiano davvero i rapporti di forza. Quanto ai partiti, per noi la Sinistra europea (Se) è un progetto molto importante. Aggiungo che nell’Europarlamento la Se fa parte di un gruppo, il Gue, che comprende anche forze che non aderiscono alla Se, come i comunisti portoghesi o la sinistra svedese: deve essere così anche in futuro.

 

SONDAGGI: LINKE ALL’8%, GLI ANTI-UE AL 6%

A meno di tre settimane dalle elezioni europee del 25 maggio, anche in Germania – il Paese che invia più deputati, 99, a Strasburgo – la campagna elettorale è entrata nel vivo e l’esito sarà particolarmente rilevante. Secondo i sondaggi, il risultato non si discosterà molto da quello delle politiche dello scorso anno. I democristiani della Cdu/Csu di Merkel saranno primo partito, arrivando a ridosso del 40%, mentre la Spd è data al 27%. La Linke, principale forza di opposizione, dovrebbe mantenersi sull’8%. Meglio farebbero i Verdi (9%), tradizionalmente più forti nel voto europeo. Si prevede una buona affermazione degli antieuro di AfD: un 6% che li renderà protagonisti a tutti gli effetti della vita politica nazionale e comunitaria.